Un album discografico, un disco, sì, insomma, un supporto fonografico di quelli in voga fino a quando la digitalizzazione della musica non ha cambiato tutto, ospitava dieci o dodici canzoni. Brevi. Una mezz’oretta: un quarto d’ora per lato nell’era del vinile. I Beatles riuscivano a strizzarci ben quattordici brani, per offrire un miglior rapporto qualità - prezzo. Altri tempi, davvero.
Oggi la musica si ascolta ovunque e sempre, e sempre a pezzettini. Qualcosa da Spotify, un amico ti inoltra un link di YouTube e guarda cos’ha condiviso Mario su Instagram. Ecco, per questo mondo, per questo 2019, non saranno troppe ventiquattro – canzoni – ventiquattro (24!) senza soluzione di continuità? A giudicare dalla prima serata del sessantanovesimo Festival di Sanremo la risposta è sì. Sono troppe. Troppissime. Al punto che il padrone di casa, Baglioni, resta defilato per la gran parte del tempo.
Altro che polemiche con il ministro, altro che baluardo. A meno di non cogliere riferimenti ai migranti nella metafora dell’armonia che è «un approdo dopo una partenza magari difficile», ma se è così, in quello stesso mondo dove si deve urlare tutto per farsi capire, nessuno sembra essersene accorto. Così Virginia Raffaele e Claudio Bisio, generalmente sempre divertenti, sono ridotti al ruolo di sciorinatori di nomi e numeri del televoto, ingaggiando piccoli battibecchini fittizi (perché, va detto, nel diciannovesimo anno del Terzo Millennio, 69 anni dopo Nunzio Filogamo, gli autori non riescono a concepire qualcosa di più divertente dei bisticci che funzionavano per Paolo Panelli e Bice Valori e per Sandra e Raimondo).
E non ci sono solo i concorrenti. Ad allungare il brodo ci sono anche gli ospiti, Bocelli (& son), con Baglioni che si inserisce malino, Giorgia, un Favino di ritorno e Santamaria. Così accade che i brani, belli o brutti, rock o rap, pop o melodici, diventano un’unica brodazza affossata da un audio lontano dall’intelligibilità (di Renga e D’Angelo non s’è capito nulla: solo con Nek qualcuno si è reso conto che, forse, era il caso di riequalizzare i suoni) e una regia che non tiene il passo fin dalle prime inquadrature. Sì, perché Claudio, a cui si è contestato un conflitto di interesse che la Rai ha minimizzato ribattendo «Non c’è» (punto), ha benpensato di fare un po’ di Siae subito aprendo con una versione corale di “Vai” (era su “Strada facendo”, che risale a quando Baglioni, a Sanremo, non ci sarebbe andato mai) dove spuntano ballerini da tutte le parti proponendo numeri di breakdance (ma non si era estinta, come il brontosauro, la radio a transistor e la Sisal?) inseguiti dalle telecamere che, almeno in un paio di occasioni, riescono a inquadrare il vuoto. All’Ariston il pubblico non se ne accorge: con quello che ha pagato per stare lì applaudirebbe qualsiasi cosa. Ma a casa? Oggi leggeremo di risultati di audience strabilianti, nell’abituale parata di servizi tautologici della Rai, ma chissà quanti, a casa, ieri sera, hanno scoperto che Iris trasmetteva “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah mentre i figli, al tavolo del fast food, ascoltano nuovi rapper perché quelli che sono a Sanremo sono già vecchi. Stasera e domani le canzoni si spezzano in due (dodici e dodici) e si respirerà un po’, ma venerdì e sabato saranno ancora ventiquattro. Chi ci salverà? Gli ospiti? Virginia con un’imitazione monumentale? Chessò, la Ferragni? Bisio con un monologo di quelli che poi se ne parla per giorni? Forse sì: analizza i testi di Baglioni sottolineando tutti i riferimenti all’immigrazione prima che entri Claudio a intonare (o, meglio, a stonicchiare) “Io sono qui”. Insomma, per ora di politico si è visto solo Zingaretti – Montalbano che, negli spot della serie, tira la volata al fratello per le primarie del Pd, non si sa quanto inconsapevolmente. Tutto il resto è Festivàl, canzone su canzone su canzone su canzone su canzone. Fino alla fine.
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