Il segreto? Meglio
unici che perfetti

È cosa nota che il tema dell’imperfezione sia da sempre intrecciato con la storia dell’arte e, per diversi aspetti, con una disciplina affascinante e complessa come l’estetica.

Non è forse un caso che il mio interesse per questa singolare visione delle cose, nasca all’interno d’una situazione dentro la quale mi ritrovai casualmente, spinto da interessi e curiosità che miravano a ben altro. Un vero e proprio esempio di serendipità, un neologismo, questo, che “tradotto”, indica la sensazione che si percepisce quando si svela una cosa, un’idea non cercata, la quale compare inaspettatamente, proprio nel momento in cui se ne sta indagando un’altra.

Accadde tutto, infatti, più di una decina di anni fa, durante una visita a Pattada, in Sardegna, alla ricerca di sapori dimenticati, durante una manifestazione dedicata alla mostra dei migliori coltelli, resolzas e leppas, prodotti dagli artigiani di quest’antico paese rinomato in tutto il mondo per la cultura artigianale della lavorazione delle armi bianche. Passeggiando tra le bancarelle che esponevano centinaia di coltelli a serramanico, rimasi incuriosito da un capannello di persone che dialogavano animatamente. Spiccava, per via della loro altezza e degli abiti sgargianti che indossavano, una delegazione di manager americani. Uno di questi, apparentemente il più giovane, brandiva un magnifico coltello dal manico di corno di montone mielato e, con gesti meccanici e nervosi, giocherellava con la lama aprendola e serrandola in continuazione nel tentativo di scoprirne il funzionamento e, soprattutto, di decifrarne il suono particolare che emetteva ogni qualvolta che il coltello si apriva.

Improvvisamente, con un italiano cinematografico, si rivolse a un anziano artigiano sardo che aveva forgiato il coltello e, indicandogli la sede del collarino dell’arma, gli gridò che proprio in quel punto, all’apertura, si percepiva uno strano suono, una sorta di “tic” difettoso, che si manifestava diversamente in ogni singolo coltello. Il vecchio coltellinaio, quasi impassibile, con un’atavica gentilezza, gli rispose con tono fiero scandendo precise e indimenticabili parole: «Non è un difetto, quel “tic” che si sente, è un’imperfezione “aggiunta”, una specie di timbro musicale che rende ogni coltello unico, diverso l’uno dall’altro, e, proprio per questo, irripetibile, non riproducibile in serie». Infatti, se ne possono realizzare, per il lungo lavoro che richiedono, pochi esemplari ogni mese e, ciascun artigiano, esprime così la sua specifica imperfezione che, insieme al timbro impresso sulla lama, rende questi coltelli il simbolo di un “saper fare” frutto della sinergia tra mente, mano, desiderio, ragione e storia.

Così, proprio per serendipità, circa dieci anni fa, cominciai a riflettere sul valore aggiunto che l’imperfezione avrebbe potuto dare alle cose e, in particolare, al cibo e al vino, ai numerosi prodotti artigianali per troppo tempo sottovalutati e dimenticati. Questa “semplice” intuizione si ravvivò, guarda caso, in uno dei miei tanti viaggi in Giappone dove, sempre in un ambito intrecciato all’antropologia del gusto, durante la mia partecipazione a un’autentica ed emozionante cerimonia del tè, presi coscienza del significato e della virtù della sobrietà, del valore intrinseco di taluni oggetti, protagonisti emblematici, nella cultura giapponese, di una sensibile e a prima vista imperfetta visione dell’estetica e della bellezza.

I giapponesi chiamano questa esperienza esteriore del mondo Wabi sabi, un concetto astratto che rappresenta appunto “La bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute, la bellezza delle cose umili e modeste, la bellezza delle cose insolite”. Come nel caso delle tipiche tazze da tè giapponesi, le chawan nello stile Raku, in assoluto non perfettamente tonde, dai bordi irregolari, ruvide, in molti casi erose dal tempo, con una specie di firma incisa dell’artigiano che le ha plasmate, individuabile sul fondo esterno, esattamente dove la ceramica viene staccata dal tornio di lavorazione. L’imperfezione, quindi, come elemento progettuale, come metodologia attraverso la quale è possibile generare innovazione, come approccio differente nell’ideazione di un manufatto. L’imperfezione che si coniuga e che si trova, quasi sempre, a interagire con il tempo. Con il tempo che consuma le cose, ma, pure con il tempo che dà valore alle cose, con il tempo che fa, che cambia, che eleva, che evolve e che migliora. A ben guardare, sono nati da queste semplici intuizioni, attorno all’imperfezione, alcuni dei nuovi paradigmi che in questi anni hanno attraversato il mondo della produzione enologica, di una nuova visione dell’agricoltura e del cibo. Non solo, anche l’ibridazione che in questo senso è avvenuta in seguito nel mondo del design, come in quello della moda e della cosmesi, hanno generato situazioni eclatanti con richiamo esplicito al valore virtuoso dell’imperfezione.

Del resto, è ormai cosa nota, come osservava il grande scrittore giapponese Jun’ichiro Tanizaki, che in molti casi «Prediligiamo la patina del tempo, ben sapendo che è prodotta da mani sudate, da polpastrelli unti, da depositi di morte stagioni; la prediligiamo per quel lustro, e quegli scurimenti, che ci ricordano il passato, e la vastità del tempo». E, in fondo, lo insegna anche l’esperienza, non serve essere perfetti, quando si è unici.

* Fondatore di Slow Food

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