A squarciare la plumbea e inevitabile scontatezza dei commenti dopo la strage di Barcellona, sono apparsi sui giornali di domenica due editoriali con qualche spunto su cui vale la pena soffermarsi. Il primo di Marco Travaglio su Il Fatto ha contestato il luogo comune per cui la guerra jihadista non dovrebbe cambiare le nostre vite. Invece lo sta facendo eccome, ha raccontato Travaglio, nell’approccio di fronte all’individuo sospetto e allo straniero. E, si potrebbe aggiungere, nel nostro modo di programmare le vacanze, evitando i paesi dove i demoni hanno colpito, una o più volte. Ma anche in quel senso di angoscia e provvisorietà che sempre più spesso ci avvolge e che, per fortuna, riusciamo a stemperare nelle incombenze della vita quotidiana.
Un altro editoriale interessante lo ha scritto su La Gazzetta di Parma il direttore Michele Brambilla che è partito dalla triste storia di Antonia Custra, figlia di un poliziotto ucciso negli anni di piombo durante una manifestazione di extraparlamentari. La donna, scomparsa pochi giorni fa a 40 anni per un cancro, era riuscita a costruire un rapporto con l’uomo che le aveva ucciso il padre, contribuendo a realizzare un percorso di redenzione. Brambilla parte da qui per evidenziare come il terrorismo degli anni ’70, per le sue caratteristiche, riuscì in molti casi ad evolvere in un processo riabilitativo che contribuì anche alla sua sconfitta da parte dello stato. Un’eventualità che, a ragione, il giornalista esclude per il terrorismo di questi tempi privo di quell’umanità che era comunque propria, anche se magari sottotraccia, degli assassini delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Un sentimento che non può appartenere a chi sceglie di scagliarsi con un veicolo contro una folla inerme di bambini, donne e uomini. Una considerazione sacrosanta che sembra precludere però anche ogni speranza di poter sconfiggere questo terrorismo demoniaco attraverso la redenzione. Un terrorismo che, come quello degli anni ’70, ha cambiato il nostro modo di vivere e già incassato così una parziale vittoria.
L’angoscia deriva proprio da questo. Dalla paura di essere colpiti, una sorte che può toccare a chiunque non viva barricato dentro le mura di casa, ma anche dalla consapevolezza che l’arma risolutiva per vincere questa guerra ancora non è stata individuata. Certo, esiste la prevenzione. Ci sono le barriere che sono state collocate a Milano e Roma per impedire ai furgoni di penetrare nelle zone più affollate. Esistono i controlli, l’intelligence, ma sono strumenti che agiscono sulla contingenza, utilissimi, indispensabili, ma non risolutivi. Allora come possiamo sperare che prima o poi questo quotidiano stillicidio di paure possa avere termine e riportare le nostre esistenze alla normalità? Il problema è che a questa domanda nessuno, oggi, riesce a dare una risposta. E questo non può che alimentare ancora di più il nostro timore. Ecco perché non è vero, come continuano a sostenere in maniera meccanica tanti politici e non solo ogni volta che i demoni tornano a colpire, che non dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. Perché lo abbiamo già fatto. Come negli anni di piombo, gli italiani e gli altri europei si vedono costretti a limitare la propria libertà. Solo che allora, c’era la speranza di vedere la luce alla fine del tunnel. Si poteva immaginare che prima o poi lo Stato avrebbe prevalso. Questa volta no. Perché di fronte a chi non si fa scrupoli nel falciare, in modo casuale e feroce, vite di innocenti, non esistono risposte se non quella, inaccettabile per una civiltà evoluta, della legge del taglione. E neppure sembrano esserci speranze, se non quella che non debba toccare a noi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA