Il tesoretto segreto
che dà forza alle aziende

C’è anche chi ha detto no. No a licenziare, a lasciare padri di famiglia, mariti, mogli, giovani single a casa nel momento in cui la crisi mordeva con maggiore forza. Un no deciso e secco, un no alla ricetta delle banche, un no che poteva costare caro. Ma che, al tempo stesso, apriva le porte a grandi possibilità: salvarsi tutti insieme, ripartire e soprattutto esaltare i principi di umanità e solidarietà. Una scommessa da brividi, una scommessa che alla fine si è rivelata vincente tanto da rappresentare un esempio.

Da Erba arriva una storia esemplare per leggere da un altro punto di vista la crisi che sembra appena allentarsi ma è tutt’altro alle spalle. La storia di un’azienda che ha voluto raccontarsi a La Provincia, in un ottimo pezzo di Simona Facchini a pagina 11, per spiegare come vi siano alternative alle ristrutturazioni sanguinose, alle soluzioni traumatiche suggerite da chi interpreta l’azienda e l’economia di un territorio solo in termini di numeri, fingendo di non sapere che dietro a questi ultimi vi sono uomini, donne, speranze e progetti.

La vicenda si sviluppa nel 2013 quando, complice il taglio degli incentivi al fotovoltaico, la Integra ha visto il suo fatturato abbassarsi bruscamente. Alla richiesta di finanziamenti, gli istituti di credito hanno replicato con la classica, sbrigativa, richiesta di questi anni pavidi: ok, ma dovete ridurre i costi fissi. Il che, tradotto, significa intervenire sul personale, eliminare posti, licenziare. Ma il titolare, al pari di tantissimi altri in questo angolo di Lombardia, si è guardato attorno e non ha visto cifre in rosso, bensì facce e vite. E ha risposto: no, grazie. «Per loro – ha detto Massimo Carbone – le persone che lavoravano con noi erano solo un peso. Per noi, invece, restavano una risorsa».

Fatti i conti, la via d’uscita è stata trovata, anche se poteva essere un azzardo con ben poche garanzie: tutti i lavoratori hanno limato gli orari di produzione e si sono ridotti lo stipendio del 10%, Carbone e il suo socio del 50%. Hanno stretto i denti insieme, per un anno e mezzo, poi l’orizzonte si è fatto più sereno. E ora si parla di possibili assunzioni.

Un percorso che hanno seguito molte aziende, volontariamente o ricorrendo agli ammortizzatori. Ma qui c’è un quid in più, di diverso: gli imprenditori hanno avuto la forza di respingere il denaro che le banche prendono a interesse prossimo allo zero dalla Bce per darlo al mercato a tassi fra il 4,04% a al 15,95% secondo il tipo di operazione (fonte Unimpresa) perché hanno preferito ricorrere al “tesoro” aziendale: i dipendenti. Hanno quindi scelto di puntare sul capitale umano. E hanno vinto. Un’opzione che, pur negli anni della recessione, si è rivelata azzeccata per tante imprese.

Secondo uno studio di Global Strategy nelle imprese d’eccellenza italiane, quelle che negli anni critici sono comunque riuscite a crescere anche oltre il 10%, il fattore umano è molto importante per non dire fondamentale: lo è per il 92% delle imprese familiari che assumono e hanno sempre assunto in modo stabile al netto del Jobs act e, soprattutto, possono contare su una fidelizzazione consistente di manager e dipendenti, provata dal fatto che oltre il 60% ha un’anzianità aziendale che supera i 10 anni.

Nella scommessa vinta di Integra appare “in nuce” l’elemento che può consentire all’Impresa Italia di uscire dalle secche finalmente e senza i giochi di luce della politica. Occorre puntare dunque sul capitale umano nelle sue diverse accezioni: nell’aspetto umano, delle relazioni e del rapporto tra vertici dell’azienda e la base, nella valorizzazione continua da un lato e dall’altro, riprendendo quanto ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco nel 2014, su quanto proprio il capitale umano può dare: «La sfida per le imprese è di realizzare un salto di qualità di prodotto e di processo, che le porti a essere più grandi, più tecnologiche, più internazionalizzate, così da agire quali incubatrici di una delle più rilevanti dimensioni del capitale umano: la capacità d’innovare».

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