Cantù trasloca. Va a giocare a Desio. Per un anno. Perdonateci il pessimismo: forse due, visti i tempi della burocrazia italiana e i precedenti legati ai palazzetti che si sarebbero dovuti costruire. Tutto è relativo, verrebbe da dire. Ai tempi di Allievi o di Corrado, per non parlare di quelli di Polti, un trasloco altrove sarebbe stato preso come una tragedia. Di più: il pericolo di un trasloco definitivo, di perdere il basket. Nell’era Cremascoli, la pillola era stata addolcita. Il trasferimento sporadico a Desio era stato accettato, sopportato dai tifosi anche come una opportunità. Adesso c’è un passo in avanti. Nessuno (o quantomeno la maggioranza) pare non guardare più ai disagi, ma al progetto. Meno tifosi e più manager. Perché la decisione della Pallacanestro Cantù di giocare a Desio, per scelta e non per immediata necessità, è uno scatto in avanti sul come fare pallacanestro in Brianza da parte della nuova proprietà. Questa volta non si aspetta l’inagibilità del Pianella, quando inizieranno i lavori. Non si inizia comunque nella antica scatola magica aspettando gli eventi, ma si trasloca subito. E per due motivi: uno, perché una società che vuole essere una Cantù 2.0 del basket deve farlo in un palazzetto che consenta opportunità logistiche, spazi, contesti e aree vip al passo con i tempi e con le leggi del marketing.
Secondo: perché così si fa pressione a chi avrà in mano le lungaggini burocratiche. Forse con la storica società in esilio volontario (ma forzato), chi dovrà mettere un timbro su un foglio, lo farà più in fretta. Forse. Il salto, dal punto di vista temporale, si porta dietro delle incognite. Se non è nel buio, quantomeno è nella penombra. Siamo stati abituati a vedere progetti strombazzati e visionati nel dettaglio, in cui erano già quasi persino assegnati i posti. Ora si trasloca in assenza di un progetto pubblico (il progetto c’è, e ovviamente crediamo al vicepresidente Mauri: ma non è ancora stato mostrato), persino in assenza di accordi certi su quali aree saranno cedute per i parcheggi. All’inizio di trattative lunghe e dai tempi incerti. Capite che fissare una data per il ritorno al Pianella, è dura. Per i metodi sbrigativi del patron russo Gerasimenko, una partita forse ben più dura (quella di accorciare i tempi e le lungaggini varie) che quella di vincere nel basket.
Per Cantù ieri si è chiusa un’epoca. E quasi siamo emotivamente impreparati a salutare il buon vecchio Pianella. Sapevamo che sarebbe successo, ma lo choc romantico resta inalterato. A quella scatola di latta sul colle, eravamo tutti affezionati. In quello scatolone, in questa configurazione, non si giocherà più. Un pezzo di antiquariato. Destinato a non rimanere tale, visto che sarà abbattuto per costruire il nuovo Palazzo. Che immaginiamo completamente diverso. Chissà se si farà un’amichevole di saluto al campo. Sarebbe bello. Prima che i tifosi si mettano in tasca pezzi di lamiera come una reliquia.
Vabbeh, voltiamo pagina. Se la conferenza stampa di ieri è stata molto precisa sotto l’aspetto delle strategie legate al Palazzetto, lo è stata meno sotto il profilo di quelle sportive. Qualche paletto è stato messo (obiettivo: stare a ridosso delle primissime), Mauri ha tranquillizzato tutti, sui tempi che non stringono: fra una settimana verrà scelto l’allenatore, e poi via. Ma se Gerasimenko (assente anche ieri, come ci si aspetta da uno al quale le parole pesano specie se bisogna pronunciarle davanti a un microfono) e il suo staff sentono un pizzico di impazienza, di ingordigia e di frenesia sui programmi, cerchi di capire. In Italia (anche nella vicina Como) dire “Speriamo che ci compri un russo”, tra i tifosi è diventato un modo di dire. Da quando i russi hanno cominciato a invadere l’Italia, non con i carri armati, ma con l’opulenza dei suv, va così. Forse qualcosa è cambiato. Ma un pizzico di aspettativa, solo un pizzico, è lecita. O no?
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