Il trucco che rende
i tedeschi vincenti
tedeschi vincenti
ecco il trucco

In una pagina autobiografica raccolta in un Meridiano di qualche tempo fa, Italo Calvino ricordava con toccante nostalgia gli anni verdi della giovinezza nella splendida Sanremo del dopoguerra, così diversa da quella devastata dalla speculazione edilizia del boom. Gli anni delle zingarate, degli stomaci di ferro e degli istinti predatori aspettando al guado le torme di ragazze tedesche che all’inizio dell’estate iniziavano a sciamare sulla riviera.

E di come lui e il suo gruppo di amici scioperati e bamboccioni, eleganti e narcisi, italiani medi, mori, sciupafemmine e vitelloni, si

divertissero a motteggiare sui calzini corti e le ciabatte sformate dei genitori di quelle fanciulle in fiore e su quanto fossero ridicole quelle strane famiglie del nord così stropicciate, dozzinali e impresentabili. Eppure, esaurita l’ultima risata, spento l’ultimo sberleffo irridente sui crucchi-wurstel-kartoffel, intuiva che dietro quella apparente grossolanità si celava qualcosa di solido, di vero, di profondo, una democrazia allo stato nascente, dopo la più spaventosa delle dittature, che sarebbe stata capace, al contrario di noi, di costruire un percorso lungo nella storia della nuova Europa. Profetico…

L’approdo meritatissimo alla semifinale dei mondiali, la quarta consecutiva, lo conferma: c’è qualcosa di speciale in quell’angolo di mondo, in quella cultura non solo sportiva, in quello stile di vita. Una continuità di rendimento, una capacità di stare sempre sul pezzo, di governare il tutto esaltando le doti dei singoli all’interno della stretta forgiatrice del gruppo, insomma, una visione del calcio e della vita mille miglia lontana da quella rapsodica, isterica e piagnona dei paesi latini e mediterranei. Che, tra i difetti che il buon Dio gli ha dato in sorte, hanno anche quello di odiare chi è meglio di loro, invece di apprezzarlo e cercare magari di imitarlo. Lo ricordava ieri Emanuela Audisio in un pezzo magnifico su Repubblica. Fateci caso. Quanti giocatori con la cresta ha la Germania? Nessuno. E con la tinta da star dell’hip hop? Nessuno. E con i tatuaggi? Due, e pure piccoli e ben nascosti. Immigrati teste calde? Zero. Il resto niente, maglia bianca, poco gel, tagli quasi all’Umberto. Una squadra di vecchie zie. E che noia. E che barba. E che palle. E vuoi mettere i negroni tatuati della Costa d’Avorio e i canzonettari italiani e i chicos colombiani e i sopravvissuti delle banlieue parigine e i ballerini di samba del Brasile, che se non la piantano di ridere prima della partita e di piangere dopo viene voglia di rincorrerli con la vanga, e tutto quel circo di nani, donne barbute, uomini salsiccia, facce di palta, molestatori seriali e giornalisti forforosi che si aggira tra Copacabana e Fortaleza? È dura tirar fuori un pezzo di costume da una pizza del genere.

E allora, se non riesci ad accettare gente così “superiore”, si parte subito con l’irrisione - crauti e birra, soldatini ottusi, noiosi senza senso dello humour, “culona incvbl ” e altre raffinatezze alla Berlusconi in tono - oppure con il terrorismo – quando si arrabbiano assomigliano a quello là con i baffetti, ci vogliono invadere un’altra volta, sono quelli dei lager, basta con la dittatura del marco - e altre sottili analisi di geopolitica comparata. Ed è questa la stupidaggine più avvilente, se solo ci si ricordasse di quali rimandi corrono tra i due paesi e la storia della loro unificazione e del parallelo tra l’opera di Cavour e quella di Bismarck, al quale quel genio della storiografia italiana che è stato Federico Chabod ha dedicato pagine memorabili. Quello è un popolo che ha saputo andare alla radice dei suoi demoni più spaventosi, quelli che gli hanno fatto scatenare due guerre mondiali e gliele hanno fatte perdere entrambe – senza cambiare mai alleato in corsa, però –, che hanno inflitto al mondo morte e sofferenze senza precedenti fino alla sintesi dell’orrore supremo, ma da tutto questo sono usciti con una forza di autocoscienza e di riabilitazione esemplare. E sono anche quelli che in vent’anni hanno riaccolto e risollevato il disastro della Germania dell’Est – la loro questione meridionale - e mentre quella adesso è tornata a essere una terra viva, noi dopo due secoli siamo ancora qui con i nostri Belice e le nostre roulotte e le nostre canne mozze e i nostri quartieri spagnoli e gli spaghetti con le vongole e i trasformisti con la coppola e la cassa del Mezzogiorno e la Salerno-Reggio Calabria e le Asl senza bilancio e tre Regioni in mano alla criminalità e l’olio del paese e i lupini di padron ‘Ntoni e Balotelli che se la tira da fenomeno mentre quel genio di Mueller, pur con quelle gambette, uno come Supermario se lo mangia a colazione e Neuer portiere bionico che dopo gli allenamenti accompagna Buffon ai giardinetti. Ma come si fa? Come si fa a “rasterizzare” un ridicolo paese sudamericano in una nazione seria, dove uno vale uno ma tutti assieme valgono ancora di più?

Stadi pieni, zero violenze, conti a prova di bomba, una squadra di club come il Bayern capace di vincere tutto senza mai andare in rosso mentre arabi, russi e gangster vari assoldano i contabili di Al Capone, una Nazionale che tra finali vinte (tre mondiali e tre europee) e valanghe di semifinali e quarti sembra dar ragione al campione inglese Gary Lineker: “Il calcio è quello sport che si gioca in undici, ma dove alla fine vince sempre la Germania”. Non è così, perché di finali ne hanno perse a mazzi, ma sempre consci del proprio valore e con la sicurezza che il loro popolo li avrebbe accolti con amore anche dopo una sconfitta e non a pomodorate, come noi lord anglosassoni abbiamo fatto con gli eroi di Messico 70, rei di essere stati battuti dalla squadra più forte di sempre. Chi è stato bambino negli anni Settanta e ha avuto la fortuna di vedere, in un pomeriggio solitario di un’estate assolata, la Germania di Beckenbauer rimontare la meravigliosa Olanda del gioco totale, lo ha capito subito: il trucco dei tedeschi è che sono tedeschi.

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