Il voto degli italiani è più mobile della donna del Rigoletto. Dopo la fine della guerra fredda e dei partiti ideologici è diventato liquido come un brodino poco tirato ed è affluito un po’ qua un po’ là continuando a seguire le correnti del momento.
Questo ha costretto le forze politiche a riposizionarsi di continuo e i leader a ritrovarsi in una sorta di campagna elettorale permanente, anche per lo scadimento di qualità del ceto politico, tale da far sì che sia più agevole denunciare un problema piuttosto che risolverlo. Dalla nascita della Repubblica il consenso era polarizzato attorno a due partiti: la Dc sul versante moderato e il Pci dalla parte progressista. A ogni elezione vi erano piccoli sommovimenti che premiavano o punivano i partiti di centro e a destra dello Scudocrociato, piuttosto che il Psi e le rappresentanze più a sinistra di Botteghe Oscure. La perdita di uno 0,5% in un’elezione era allarmante, un 3% in meno una tragedia con conseguenze devastanti sugli equilibri politici. Adesso è cambiato tutto. Poco più di quattro anni fa, Matteo Renzi, alla guida del Pd era arrivato al 40%, ora con Italia Viva non riesce a raggiungere il 4. Solo nel 2008 il Movimento Cinque Stelle aveva vinto le elezioni politiche con il 32% alla Camera, oggi, secondo i sondaggi, sarebbe circa alla metà. La stessa Lega di Salvini che alle europee dello scorso anno era balzata al 34,3%, è accreditata al 23, tallonata dal Pd, unica forza tutto sommato stabile o in lieve crescita. Altre differenze significative sono state registrate, in meglio, da Fratelli d’Italia e, in peggio, da Forza Italia.
Insomma l’elettorato si muove. E se bene o male i movimenti eredi delle tradizioni moderate e progressiste cioè berlusconiani e partiti post comunisti ne avevano più o meno mantenuto larga parte dei consensi, l’apparizione sulla scena prima della Lega, di Bossi e quindi di Salvini, poi della pattuglia grillina, ha scompaginato tutto. Il voto più liquido di tutti è quello del Sud Italia, dove le condizioni di vita e i colpi al ribasso subiti dalle politiche assistenzialiste che avevano segnato tutta la fase dal 1945 ai primi anni ’90, hanno determinato una fluidità che ha portato prima a premiare gli azzurri di Forza Italia, poi il pd renziano, quindi i Cinque Stelle, la Lega o oggi il partito di Giorgia Meloni. Domani chissà, perché nessuno sembra in grado di dare risposte alle istanze sociali, neppure Di Maio & C. con il reddito di cittadinanza. Situazione differente al Nord, dove il fuoco autonomista acceso da Umberto Bossi continua a restare acceso sotto le ceneri di un federalismo che ha portato più danni che benefici. Un elemento quest’ultimo che ha portato, dopo le recenti regionali, alla nascita all’interno dell’elettorato di due leghe: quella vincente di Zaia e la perdente dell’attuale segretario. Con ogni probabilità la separazione resterà tale solo nell’urna perché il presidente del Veneto non sembra animato dalla voglia di un colpo di mano, conscio anche del dato storico per cui nel Carroccio hanno sempre comandato i lombardi. Ma i nodi prima o poi dovranno venire al pettine anche perché lo sbarco al Sud nella prospettiva nazionalista di Salvini segna il passo e il Covid sta determinando il tramonto della breve stagione sovranista.
In questo quadro di fluidità l’eccezione è rappresentata dal Pd, forza stabile che si è presa con il lento passo di Nicola Zingaretti, il centro della scena politica. E non sembra aver bisogno di cambiare linea forse perché le contraddizioni che si porta in pancia fin dalla nascita non gli hanno mai consentito di averne una chiara. Il voto è mobile e resterà tale finché i politici non lo considereranno una “piuma al vento” e non tenteranno di consolidarlo con le soluzioni ai problemi. Di cui, in questi tempi, ci sarebbe davvero bisogno.
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