Il voto degli italiani è come il cuore di una vecchia canzone di Nicola Di Bari, “uno zingaro e va…”. Dopo il crollo del Muro di Berlino, del fattore K e la fine delle ideologie, la celebre “libera uscita” di un parte dell’elettorato, espressione coniata da Giulio Andreotti, è diventata una regola.
C’è una massa di votanti, con ogni probabilità legata a blocchi sociali definiti e in gran parte identificabile con il ceto medio, che si sposta di volta in volta e determina il vincitore, salvo magari spodestarlo al giro successivo, riportarlo poi in auge e detronizzarlo di nuovo. Un orientamento che può anche cambiare il giorno primo o il giorno stesso della tornata elettorale e che ha messo in crisi il meccanismo dei sondaggi. I beneficiati di questo voto più che liquido sono stati nell’ordine il centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra di Prodi e poi quello di Renzi, i Cinque Stelle e ora la Lega di Matteo Salvini. Proprio per questa ragione, Giancarlo Giorgetti, il più scafato nel team del Capitano, consiglia a tutti di tenere sul tavolo come memento una foto proprio dell’ex sindaco di Firenze che, appena 5 fa, veleggiava sull’onda di quel 40% addirittura superiore allo strepitoso 34,3% catturato dal Carroccio, salvo poi scuffiare in maniera rovinosa.
Suggerimento quello del sottosegretario alla presidenza del Consiglio quanto mai saggio se si va a sfrugugliare tra le pieghe del voto di domenica. Pieghe che sono piaghe per molti, a partire da Forza Italia che nonostante il “canto del cigno” di Silvio Berlusconi sembra destinata a seguire il suo, ahiloro, insostituibile leader sul “sunset boulevard”. Anche in casa Pd, almeno per quanto riguarda le Europee, forse è il caso di mettere la sordina ad alcuni toni trionfalistici uditi. Il risultato infatti non è tanto dissimile da quello, ritenuto a ragione disastroso dello scorso 14 marzo, se si considera il rientro di qualche figliol prodigo da Leu. Ripartenza forse, ma lenta.
Detto che l’esito del Movimento 5Stelle si commenta da sé e che è giusto far festa dalle parti di Fratelli d’Italia, rimane da vivisezionare il massiccio consenso confluito sulla Lega di Salvini. Il dubbio che di certo sta albergando anche nella mente del Capitano è quanto questo tributo sia a favore del Carroccio e quanto piuttosto contro i goffi alleati post grillini di governo. Senza dubbio il leader della Lega è stato abilissimo a capitalizzare anche le liti degli ultimi tempi che hanno paralizzato l’azione dell’esecutivo. Ma anche la distribuzione geografica che vede il consenso “verde” propagarsi dal Nord produttivo al centro operoso e frenare nel Sud del reddito di cittadinanza, suggerisce una lettura di questo tipo: una buona parte degli italiani non ne più dei pasticci e della demagogia da strapazzo sfoggiata da Giggino di Maio e compagnia in questo anno e spiccioli alla guida di un paese che ha visto ghiacciare i segnali di ripresa e riapparire lo spettro della recessione. Non sarà tutta colpa dei 5 Stelle se le cose sono andate così, ma è evidente che buona parte degli elettori italiani hanno individuato nel Movimento il capro espiatorio e chiesto a Salvini, l’unico considerato in grado di poterlo fare, di metterli alla porta. Se così non fosse non si spiegherebbe la lampante differenza tra il voto alle europee e quello alle Comunali, tra le grandi città e i piccoli centri. Tra gli esempi vi sono quelli di Milano e Roma dove il Pd, confermandosi “partito delle ztl” è risultato primo nel voto per l’europarlamento, dei tanti centri che hanno premiato i candidati sindaco di centrosinistra, nonostante un improvvido vaticinio di Salvini nella notte tra domenica e ieri senza che ancora fosse stata scrutinata una scheda. Il caso più eclatante è quello di Bergamo dove Giorgio Gori, primo cittadino uscente e candidato del centrosinistra, ha vinto al primo turno contro uno sfidante leghista, trascinando il Pd risultato primo anche nel voto per le europee.
E a proposito di Europa, l’esito negli altri paesi non è foriero di buone nuove per Salvini. I sovranisti infatti, nonostante gli exploit di Lega in Italia, Le Pen in Francia e Farage in Inghilterra (peraltro destinato a salutare la compagnia una volta attuata la Brexit), non sono riusciti a dare la spallata auspicata. Al governo europeo non cambierà granché con il rischio però per l’Italia, in buona parte rappresentata al di fuori delle famiglie politiche che ricostituiranno la maggioranza, di contare ancora meno, con tutto quello che ne consegue, anche sotto il profilo dei margini di manovra sui conti.
Tutti gli occhi sono puntati su Salvini. Vedremo se esaudirà le aspettative degli elettori. L’impressione è che giocherà la partita cercando di egemonizzare la politica di governo senza provocare subito la rottura con l’alleato, anzi lasciando il cerino in mano a Di Maio che sa benissimo quanto sia alto il rischio di bruciarsi. Magari subito con la Tav e l’autonomia delle Regioni del Nord argomenti che rischiano di accelerare il processo di “estinzione” dei Cinque Stelle. Pochi oggi, al di là delle dichiarazioni di rito, scommetterebbero su un governo di legislatura. In poco più di un anno la situazione è stata rivoltata come un calzino ed è evidente la presenza nel paese di un’ampia maggioranza di centrodestra o meglio di destracentro vista la marginalità di Forza Italia. La fotografia e i rapporti di forza del Parlamento sono però quelli scaturiti dal voto del 4 marzo 2018 con i Cinque Stelle prima forza nell’esecutivo e in aula.
Per cambiare le cose servirebbe un altro passaggio elettorale con le politiche anticipate. E allora si vedrebbe se il voto, come il cuore della canzone di Nicola Di Bari, trovato “il prato più verde (il colore della Lega) che c’è, si fermerà. Chissà...”
@angelini_f
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