Volevano conquistare Roma hanno finito per perdere anche Varese. Come quei generali che spingono troppo avanti le truppe, scoprono le retrovie e sono sconfitti, la Lega, in queste elezioni amministrative, si è guadagnata un posto d’onore nella pur folta pattuglia dei perdenti.
La caduta della Città Giardino, culla del movimento qui fondato da Bossi con alcuni amici è il simbolo di una disfatta inattesa alla luce della aspettative create dalla nuova politica di Matteo Salvini e del suo prezzemolismo più che presenzialismo in campagna elettorale. A Varese si era speso anche Roberto Maroni, il presidente della Regione era il capolista della Lega e ha raccolto un numero di preferenze certo inferiore alle attese. Dopo l’esito del primo turno l’unica speranza era rappresentata da Milano, dove pure gli ex lumbard erano andati al di sotto delle previsioni). Un successo di Parisi avrebbe in parte riscattato la debacle. E non basta il buon risultato di Bergonzoni - comunque battuta dal pd Merola - al ballottaggio di Bologna.
Perché il paradosso di questa tornata elettorale è il crollo di consensi leghisti nell’area prealpina, un tempo punteggiata di bandierine con l’effige di Alberto Da Giussano. Nelle province del “profondo Nord”, dei distretti, delle partite Iva, della protesta contro il fisco opprimente e la burocrazia borbonica, l’egemonia leghista e degli altri partiti di centrodestra è stata sostituita dal Pd e dai suoi alleati.
Ora, con Varese conquistata da Galimberti sul favorito Orrigoni, il partito di Renzi, uscito anch’egli più che ammaccato dalle amministrative nelle altre zone d’Italia, governa le città di Bergamo, Sondrio, Lecco, Como e la Città Giardino, oltre a Milano. E già nel primo turno il Pd e le liste ispirate al Nazareno, da queste parti avevano fatto segnare un esito in controtendenza rispetto al resto del paese.
Se la resa di Forza Italia si spiega con il declino del suo unico leader Silvio Berlusconi, si fatica a comprendere la battuta d’arresto del Carroccio che invece ha un capo giovane, vitale, determinato e carismatico come Matteo Salvini. Ma forse è stata proprio la svolta impressa dal segretario federale alla politica del movmento uno delle cause del ko. La Lega infatti, nel tentativo di radicarsi oltre il Nord e imporsi come partito nazionale, ha rinunciato a quel localismo e ai temi che avevano fatto la fortuna di Bossi: il federalismo, l’attenzione alle piccole comunità in cui la Lega aveva piantato le sue radici per espandersi e conquistare il governo del paese sempre però partendo dal Nord e lì tornando.
La campagna anti europeista e anti immigrazione di Salvini, non ha scaldato i cuori dell’ex blocco sociale di riferimento del Carroccio. Non è un caso che da queste parti neppure il movimento 5 Stelle sia riuscito a sfondare. Lo ha fatto in Piemonte, anzi a Torino che è una realtà radicalmente diversa dalla Lombardia, specie quella settentrionale.
Il risultato del Pd indica che il partito del capo del governo ha strappato al Carroccio la rappresentanza dei ceti produttivi, certo più beneficiati che altrove dalle riforme renziane, su tutte il jobs act.
Un paradosso davvero quello di un partito che deriva da forze politiche della tradizione nazionale come il Pci e la Dc (o almeno una parte di esse) a vocazione in prevalenza centralista, in un’area dove fino a poco tempo fa la parola magica “federalismo” portata dalla Lega passava da un borgo all’altro e da una valle all’altra delle Prealpi.
Una situazione su cui anche il Pd farebbe bene a meditare. Perché se i territori e le comunità del Profondo Nord hanno voltato le spalle alla Lega è anche dovuto a tante aspettative mancate. Un altro messaggio che arriva da questo voto è che la gente, dalle nostre parti, ha meno pazienza rispetto al passato. E se non viene ascoltata, ci mette poco a mutare opinione.
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