“Inside out” il messaggio
straziante della vita

Il film più commovente dell’anno è anche il più bello. Il più alto. Il più colto. Il più ambizioso. Ma anche il più furbo e il più ricattatorio. Ed è per questo che, pur trattandosi di un film di animazione - quelli che una volta chiamavamo cartoni animati - non è affatto per bambini, ma per adulti. Possibilmente sopra i cinquanta. O meglio ancora sopra i sessanta. Anzi, a pensarci bene, più si è anziani e più lungo la memoria e breve ha la speranza il corso, più si potrà cogliere il messaggio straziante di “Inside out”, ultimo capolavoro della Pixar che sta spopolando nei cinema di tutto il mondo.

Dicono che sia meglio non leggere Proust prima dei quarant’anni, perché il sapore della madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio di zia Lèonie, episodio celeberrimo che avvia la “Ricerca del tempo perduto” alla più sconvolgente analisi sul tempo e il significato del suo scorrere, opera senza la quale nulla dell’uomo del Novecento può essere compreso, non sarebbe colta appieno. E hanno ragione. È quella la chiave di lettura del foro interiore degli uomini moderni. L’accumularsi delle emozioni e il dipanarsi della memoria dentro un gorgo di episodi che un attimo dopo essere stati vissuti diventano patrimonio del tuo essere, ma che al contempo sono destinati, in larga parte, a disperdersi, a sbriciolarsi, a svanire nell’eterno scorrere dell’esistenza, mentre altri rimangono fermi, rocche di Gibilterra contro le quali ogni altra cosa si frange, ruvidi calafati che costruiscono la nave con la quale affronterai le mareggiate durante la tua avventura nel mondo. La Rosabella di Orson Welles.

Bene. La genialità dei creatori di “Inside out” - americani dalla cultura e dalla sensibilità eminentemente europea, un po’ come i fratelli Coen - consiste nell’aver preso l’intera storia della psicanalisi, le teorie di Darwin e il filo conduttore della letteratura dell’ultimo secolo per infilarli dentro un cartone animato di un’ora e mezza. Operazione pazzesca. Ci sono dei geni in California. Una bambina vista dal di dentro, dall’interno del suo cervello, grazie alle cinque emozioni principali - gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto – che diventano personaggi del film e raccontano come ogni piccolo evento della vita di Riley - la passione per l’hockey, il trasloco, il distacco dai vecchi amici, il rapporto con i genitori - siano modulati e determinati dall’alternarsi dei suoi sentimenti, tra i quali spicca quello centrale, il vero motore della storia, Tristezza, che a prima vista sembra piccola e cicciona, ma che rappresenta invece la forma di una lacrima rovesciata. Metafore.

È la ragione per cui questo è un prodotto meraviglioso, ma al contempo anche furbo, astutamente costruito a tavolino, al di là della realizzazione magistrale, della raffinatezza della sceneggiatura e della strepitosa ricostruzione dell’interno dell’encefalo come un parco giochi per un film d’azione. Basta dare un’occhiata in sala alla fine della proiezione: i bambini divertiti sì, ma un po’ perplessi, i genitori e i nonni - tutti - con gli occhi gonfi. E non può essere che così. Nulla è più commovente della coscienza del tempo perso - questo il vero ricatto - , delle emozioni scialate, dell’attimo fuggente appena colto e già disperso, quel giorno in cui hai giocato a pallone fino a sera e disteso sull’erba ti sei sentito - almeno quella volta - veramente felice, il krapfen diviso con l’amico del cuore, il volto del padre-eroe prima che tutto diventasse silenzi e mugugni, quello della madre prima che si sfigurasse per sempre, le prime pulsioni, le prime vergogne, le prime risibili speranze e mille altre minuscole cose di fronte alla maestosità indifferente dell’universo, ma uniche e preziose per la tua vita. Ognuno ha le sue, certo, ma un classico – e questo film è destinato a diventare un classico, esattamente come “Up”, apice della Pixar, “La carica dei cento e uno” o “Bambi” - è quel miracolo che riesce a raccontare una storia nella quale tutti quanti si sentano rappresentati, anche a distanza di secoli e di tutte le differenze storiche, sociali, culturali e geografiche.

Nel loro girovagare per i meandri del cervello, Gioia e Tristezza incontrano tutta l’architettura della nostra coscienza - il quartier generale, l’isola della personalità, i ricordi base, la memoria a lungo termine - imbattendosi in milioni di palline che rappresentano ognuna un ricordo e che vengono conservate dentro un magazzino enorme, infinito, borgesiano. Ogni giorno, gli spazzini fanno pulizia, salvandone alcune e distruggendone altre. Sì ride, ma c’è qualcosa di più angosciante? Perché tutti quegli attimi saranno presto dimenticati? Perché decidiamo di cancellarli? E perché altri, anche all’apparenza irrilevanti, resteranno invece vivi per sempre? Ogni pallina che sparisce fa sparire un pezzo di noi, un istante della nostra vita che diventa il nulla. Come se non ci fosse mai stato. Come non fosse mai esistito. Come se tu che lo ha vissuto non fossi mai esistito. Spettri nella nebbia. Noi siamo la nostra memoria, ma questa è destinata a perdersi. Altro che cartoni, qui siamo a uno dei punti più profondi di ogni riflessione filosofica.

Certo, il film trasmette anche il messaggio coraggioso dell’importanza del fallimento e della sua inscindibilità con il raggiungimento dell’età adulta, riabilitando il ruolo creativo della tristezza contro ogni ottusa ricerca della felicità a tutti i costi. Ma il tema dirimente rimane l’altro: la necessaria morte del fanciullino, rappresentata nella scena superba - che rimarrà nella storia del cinema d’animazione - dell’Amico Invisibile, che aveva accompagnato l’infanzia di Riley e che, abbandonato nella discarica delle palline scartate, piano piano si sbriciola e scompare, come il Gatto del Cheshire in “Alice nel paese delle meraviglie”.

Ne abbiamo viste di cose, nei nostri anni verdi. Ma tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.È tempo di diventare grandi.

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