Jobs act: i risultati
sono lontani

Il dibattito pubblico sulla crisi ieri si è articolato su due palcoscenici, diversi e fisicamente lontani ma per molti aspetti collegati: a Milano il vertice europeo sull’occupazione fortemente voluto (nonostante le resistenze dei partner) dalla presidenza italiana, e a Roma, nell’aula di palazzo Madama dove si svolgeva il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro e sulla fiducia posta dal governo.

Matteo Renzi aveva congegnato le cose, stringendo i tempi, perché il Senato dicesse il suo sì in contemporanea con il summit Ue: la stessa decisione di porre la fiducia è stata presa con questo obiettivo oltre che per ridurre il più possibile le armi a disposizione degli avversari, sia interni (la sinistra del Pd) che esterni. Renzi avrebbe voluto annunciare il voto positivo di un ramo del Parlamento nel bel mezzo della conferenza per dire: vedete? L’Italia sta cambiando davvero, fa le riforme che promette e dunque merita di avere da voi quella flessibilità sui conti pubblici che vi chiede e che è indispensabile per frenare la nuova ondata della recessione. Naturalmente le opposizioni, soprattutto i Cinque Stelle e i leghisti ma con una sorniona benevolenza di Forza Italia, hanno fatto di tutto per far saltare la tattica renziana. Tumulti d’aula, ricorsi esasperati al regolamento, tecniche ostruzionistiche, insulti a Grasso e a Poletti, perdite di tempo, chiacchiere vuote e inutili, nulla si sono risparmiati i senatori d’opposizione pur di impedire che Renzi “portasse lo scalpo dei lavoratori italiani in pegno ad Angela Merkel”, come hanno detto in coro, durante i lavori della conferenza milanese. In realtà, questa resistenza è stata tanto accanita quanto inutile: il voto è sì scivolato nella notte ma non per questo a Renzi, causando molta stizza tra i pentastellati, sono stati sottratti le lodi e gli appoggi europei per la riforma del Jobs Act. La Merkel e Barroso hanno elogiato l’impegno riformistico di palazzo Chigi e addirittura Martin Schultz ha parlato di “un governo fantastico che fa di tutto per attrarre investimenti”. Dunque, dal punto di vista dell’immagine europea del governo italiano, poco male: il dividendo politico per Renzi è arrivato puntualmente.

Queste considerazioni però vanno subito fatte seguire da un interrogativo: la riforma contenuta nel disegno di legge delega (così come è stata modificata dal maxi emendamento su cui è stata posta la fiducia) costituisce davvero un passo avanti, qualcosa di utile per aiutare la lotta alla disoccupazione, una misura in grado di mettere l’Italia al passo con gli altri paesi? Purtroppo a questa domanda il mondo politico e anche quello professionale non riescono a dare risposte almeno parzialmente libere da un bieco tatticismo. E così, se Gasparri dice che “non cambia niente” e che l’articolo 18 non è stato per nulla abolito, allo stesso tempo i leghisti e i grillini parlano di scempio dei diritti dei lavoratori, mentre la sinistra Pd si lacera ma non osa votare contro. Del resto, stessa maggioranza deve in qualche modo ammettere che la delega è stata costruita in maniera sufficientemente vaga e, al fondo, ambigua, proprio per ottenere il voto dell’assemblea più difficile, quella di Palazzo Madama dove i voti di vantaggio sono meno delle dita delle due mani. Il punto è che la vera riforma, anche sull’articolo 18, arriverà con i decreti attuativi che il governo dovrà varare sulla base della delega ricevuta dalle Camere, quando naturalmente il lungo iter parlamentare sarà concluso. Insomma, è indubbio che alcuni principi sono stati affermati per la soddisfazione di Ichino e Sacconi e la rabbia di Camusso e Landini, ma la concretezza dei risultati è ancora lontana.

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