Il 17 luglio 1994 a chi scrive questo pezzo capitò di vedere la finale dei mondiali di calcio in un pittoresco - si dice così? - villaggio della Costa Azzurra. L’Italia, come spesso le accade, era partita malissimo e, tra infortuni, polemiche e veleni nel più bieco stile melodrammatico italiota, aveva faticato per tutto il girone di qualificazione e pure agli ottavi di finale contro la Nigeria, che ci stava meritatamente battendo. Poi, all’improvviso, a due minuti dal novantesimo, sfolgorò il talento da semidio di Roberto Baggio, che trascinò la squadra di Sacchi sino all’ultimo atto.
Tutti i turisti erano davanti alla televisione, naturalmente, e quando proprio Baggio, l’eroe, il gigante, il titano, il fuoriclasse che tutto aveva determinato fino a quel momento, sbagliò il rigore decisivo che consegnò la coppa ai brasiliani, successe una cosa assurda. Ci fu un attimo di silenzio. Un silenzio profondo, assoluto, glaciale. Un silenzio di neve. Poi, dalle viscere della terra, da ogni appartamento, da ogni residence, da ogni balcone, da ogni finestra spalancata sul Mediterraneo si vomitò un boato mostruoso, assordante, belluino. Un urlo di guerra. Una haka. Erano i francesi che ululavano di gioia per la sconfitta degli odiatissimi italiani. I mafiosi. Gli spaghettari. I pinocchi. I cialtroni. I ritals. Fu una cosa bestiale. Un sabba. Un massacro.
Bene, sabato scorso, dopo la finale di Champions tra Juve e Real, è successa la stessa identica cosa. La stessa ferocia. La stessa voglia di sangue. Lo stesso identico maramaldeggiare sul dittatore caduto, attaccato su per i piedi a qualsiasi lampione del Belpaese e poi dileggiato, schernito, sbeffeggiato, sputacchiato. Il calcio dell’asino. Una roba da giungla, da richiamo della foresta. E che, notate bene, non si è acquietato nel delirio di quella notte di vendette, di venticinque aprile pallonaro - oppure di otto settembre, vedete voi - ma che è andato avanti per giorni e giorni. Tanto è vero che ancora se ne parla adesso, quando è ormai passata più di una settimana, un’eternità ai tempi dei social media e della vita effimera delle notizie. Certo, uno potrebbe liquidare la cosa, il ruggito dei francesi contro gli italiani o di tutti gli altri contro gli juventini, come la solita rissa tra ubriachi, tra ottusi ragazzotti di paese che passano le giornate a parlare di calcio e che la sera vanno al bar, il degradante sintagma dei molesti da osteria, insomma, il classico schema antropologico del medio bollito italiano, che si ingaglioffisce in tinello davanti ai trentaduesimi di Coppa Uefa e a una Peroni gelata mentre la moglie spignatta in cucina in ciabatte.
Eppure non è così. C’è qualcosa di più. Lì sotto c’è qualcosa di profondo. Di ancestrale. Di atavico. Una grande pedagogia, un grande motore immobile che la nostra culturetta politicamente corretta tenta sempre di annacquare, di sopire e di cloroformizzare e che invece è viva e pulsante e che spesso detta i tempi della vita degli esseri umani. L’odio. L’odio è un sentimento da rivalutare, diciamoci la verità. Innanzitutto perché è un sentimento purissimo, acuminato, cristallino, inflessibile. Etico. E proprio per questo ben differente dal disprezzo, che al contrario è una roba schifosa, melmosa, squalificante nel posizionare uno dei due contendenti mille metri più in basso dell’altro. Qui, invece, il rapporto è paradossalmente paritario, sfidante, potente. Molto più potente dell’amore, checché ne dicano le chiacchiere delle sciampiste e delle casalinghe di Voghera. Pensateci bene. Quante persone conoscete che ne hanno amata un’altra per tutta la vita? Una? Due? Nessuna? Quante, invece, che ne hanno odiata un’altra per qualsiasi motivo, politico, economico, familiare, sportivo o quello che volete voi? Un’infinità. Ci sono individui che si odiano ancora dopo cinquant’anni di maledizioni, anche se ne hanno dimenticato completamente il motivo. È un sentimento formidabile, per quanto demoniaco. E che venga spesso declinato nel campo calcistico non lo involgarisce affatto - troppo facile ricordare i capolavori della letteratura e dell’arte costruiti su quella pulsione - ma gli regala, al contrario, una patente di nobiltà.
L’odio, se non ti avvelena e se non ti immerge dentro un labirinto autistico nel quale sprofondi e ti perdi, è un motore potentissimo. Che aiuta a fare cose importanti. Ci sono persone che hanno costruito intere carriere, percorsi umani, studenteschi e professionali formidabili utilizzando la leva della rivalsa, della rivincita, della vendetta contro qualcuno o qualcosa che si odiava a morte. Facendo diventare quell’avversione inestinguibile una benzina senza eguali, che può rivelarsi molto più determinante dell’intelligenza e del talento. Fai le cose perché vuoi dimostrare a quello che non ha mai creduto in te, che ti ha ostacolato, che ti ha irriso - e che tu detesti proprio per quel motivo - che vali quanto lui, se non più di lui. Raggiungi un obiettivo perché vuoi fare meglio di quello che li raggiungeva sempre tutti e per primo. E attenzione: questo non è carrierismo, è orgoglio.
In fondo, può essere una grande risorsa, che alla fine ti avvicina e ti identifica con ciò che vuoi distruggere. I francesi intelligenti (e ce ne sono, incredibilmente…) odiavano l’Italia perché da sempre rappresentava un valore calcistico più alto del loro e da quell’esempio, maledetto sì ma in fondo assai stimato, hanno preso insegnamento per vincere dei magnifici mondiali nel 1998 e dei crudelissimi europei (proprio ai nostri danni) nel 2000, anche se poi hanno pagato pegno nel 2006. Gli anti juventini intelligenti (e ce ne sono, incredibilmente…) dovrebbero fare tesoro dei risultati di quella squadra strepitosa, minata da quell’altrettanto strepitoso tallone d’Achille europeo, per valere un giorno quanto lei. In quel caso, e solo in quello, le clacsonate per le quattro pere prese dal Real hanno una loro dignità. Altrimenti sono fuffa. Anche saper odiare è cosa per pochi.
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