Venti anni fa Tangentopoli sembrò rappresentare per l’opinione pubblica la fine di un’epoca.
Le inchieste giudiziarie spazzarono via una parte cospicua del vecchio notabilato democristiano e socialista che fino a quel momento aveva beneficiato del cosiddetto “fattore k”, vale a dire dell’ “inagibilità politica” del Pci derivante della sua collocazione internazionale.
I comunisti si salvarono dalle inchieste per vari motivi sui quali non è mai stato possibile fare piena luce anche a causa della vulgata berlusconiana che, in modo sempre più dirompente, non esitò a porre in stato d’accusa l’intera magistratura alla quale venne imputata una certa benevolenza nei confronti degli eredi del vecchio partito comunista.
La realtà delle inchieste, di contro, evidenziò una spiccata impenetrabilità dell’apparato comunista all’interno del quale non mancò chi, immolandosi per il Partito, non esitò ad accollarsi ogni responsabilità nella riscossione delle tangenti.
Fu questa singolare omertà a salvare il Partito comunista, questa tetragona inaccessibilità alle segrete cose del partito che, oltre al finanziamento illecito, continuò per lungo tempo a beneficiare del polmone finanziario sovietico, a dispetto dello “strappo” da Mosca più volte celebrato nel tentativo di conseguire una piena e definitiva legittimazione democratica.
A lasciare indenne il Pci dalle inchieste non fu, pertanto, né la “diversità” fieramente proclamata dai militanti comunisti, nè l’oscuro disegno delle procure, come il Cavaliere ha continuato, imperterrito, a baccagliare fino ai nostri giorni. In ogni caso, al di là di ogni possibile interpretazione, il dibattito pubblico non ha mai fatto nulla per capire le origini di tutti i fenomeni corruttivi che le inchieste avevano disvelato.
Come un fiume carsico, la corruzione e l’illegalità continuarono, infatti, ad attraversare la società italiana in tutte le sue molteplici articolazioni. Da questo punto di vista, dopo Tangentopoli cambiò ben poco, sia nell’apparato pubblico che nel corpo sociale.
Resta questa la Grande Colpa del Cavaliere, quella, cioè, di essere stato percepito come l’interprete di un certo modo di essere italiano, come il garante di un sistema e di un costume che usa tuttora gabellare per liberismo ogni sorta di abuso, di impunità e di illegalità.
Per questo motivo, il berlusconismo rischia di essere ricordato per questo bellicoso e pervicace braccio di ferro con la magistratura la cui autonomia starebbe a cuore a qualunque spirito liberale.
Come diceva Montanelli, al di là delle inchieste giudiziarie, “un uomo politico deve profumare di bucato”.
Per questo sarebbe opportuno che il Cavaliere si facesse da parte, perchè non può profumare di bucato un uomo che ancora oggi stenta a capire che le sorti del paese non possono essere legate a filo doppio alle sue sorti personali.
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