La grande bugia
che uno vale uno

Dicono che “uno vale uno” sia la grande novità della politica italiana. Una cosa mai detta, mai vista, mai sentita. Una svolta democratica ed egualitaria rispetto al belpaese delle caste, dei familismi, delle camarille. Una rivoluzione. Una rivelazione. Una palingenesi. Un cambio di paradigma dopo il quale nulla potrà più essere come prima.

Ma non è vero. Uno vale uno, oggi mantra della filosofia grillina al suo apogeo, è uno slogan che percorre tutta la storia del pensiero politico, nella sua versione demagogica, velleitaria, fanfarona, fanciullesca. Ad esempio, non più di qualche decennio fa informò le parole d’ordine dei movimenti studenteschi e dell’antagonismo di classe, che proprio sotto quella cappa culturale produssero i loro frutti più purulenti e mortiferi. Chi ha l’età, ripensi bene a quel periodo. Non c’era una sola manifestazione che non fosse marchiata a fuoco da quel dogma, che diventava stile di vita, profilo esistenziale, programma di governo.

Uno vale uno. E quindi tutto a tutti, tutti uguali a tutti gli altri, nessuno diverso da quello accanto, il sei politico, il diciotto politico, i compiti in classe di gruppo, l’egualitarismo, il gruppettarismo, il collettivismo, il mondialismo, l’antagonismo, il benaltrismo, il dietrologismo, il sindacalismo, il complottismo, le comuni, le occupazioni, le pantere, le schitarrate in spiaggia, il teatro alternativo in calzamaglia, gli Inti Illimani, i cantautori impegnati, i maglionazzi sformati, i capelli unti e bisunti, la forfora, la puzza di piedi, le espadrillas sfondate, le gonnellone a fiori e tutto il resto del cascame, del pattume, del ciarpame antropologico che covava e albergava e gorgogliava sotto l’immanente cappello metafisico dell’uno vale uno.

E il dramma è che c’era pure qualcuno che credeva alla parità assoluta che paritariamente tutto paritarizzava. E che si era illuso di lottare veramente per una società di liberi ed eguali e ne ha combinati di pasticci e ne ha pestate di musate contro il muro inseguendo quel macramè, quella fola, quella fanfaluca da trotzkista di marzapane. Così la raccontavano, i sacerdoti della lotta di classe.

E invece non era vero niente. Erano solo un sacco di fregnacce, di buffonate, di cialtronate ad uso e consumo del popolo bue. Perché anche lì, e soprattutto lì, questa è la verità, la struttura gerarchica era inflessibile. C’era il liderino sessantottesco che programmava la rivoluzione proletaria davanti al tavolo del biliardo, poi c’era il vice del liderino, il cerchio magico del liderino, la minoranza mugugnante al potere del liderino, la fidanzatina, anzi, l’harem del liderino e dei suoi occhiuti consigliori, e via via scendendo fino all’ultimo scagnozzo al quale toccava invece attacchinare i manifesti iracondi sui muri e volantinare il verbo della palingenesi leninista ormai alle porte. E anche lì, soprattutto lì, c’era quello che comandava e quello che ubbidiva, quello che gestiva il consenso e quello che lo subiva, quello che lui era lui e tutti gli altri non erano un czz... Perché è così. È sempre stato così. E sempre sarà così, in ogni consesso, in ogni epoca, in ogni latitudine, in ogni longitudine. Perché questa è la natura degli esseri umani.

Ora, se si sfila il tazebao e lo si sostituisce con il web, è esattamente quello che sta succedendo con i Cinque Stelle. C’è chi decide e chi esegue, c’è il capobastone e ci sono le truppe cammellate. E chiunque dica il contrario, straparlando di agorà digitale e di assemblee permanenti, o vive sulla luna o mente sapendo di mentire o è pronto per essere portato via con l’ambulanza. Anche perché, in fondo, è giusto che sia così. Non fermiamoci ad analizzare il valore oggettivo dei personaggi in questione, perché se uno dà un’occhiata al curriculum culturale e professionale di Di Maio poi si deve tenere la pancia dalle risate (ma perché, vogliamo parlare di quello di Salvini, di Alfano o di Renzi?). Il punto non è questo. Il punto è che anche la democrazia non è democratica, che alla fine emerge sempre qualcuno che decide in solitudine e, soprattutto, che non esiste al mondo una cosa che tutti possano fare. In nessun campo. E, quindi, nemmeno in politica. Diceva il Grillo dei tempi d’oro che per fare il ministro dell’economia basta una massaia in gamba, perché se una sa far andare avanti una famiglia, allora può fare lo stesso al governo. Beh, non è vero. Diceva anche che bastano lo streaming e la rete per tutto rendere trasparente, algido e cristallino. Ma non è vero neanche questo. Diceva pure che gli altri sono portatori di interessi, mentre loro solo della verità. E nemmeno questo è vero, perché tutti - tutti! - sono portatori di interessi. Diceva infine che i media li attaccavano solo perché servi del potere. E almeno su questo aveva ragione. Ma anche torto, perché è bastato che i Cinque Stelle iniziassero a vincere qua e là per vedere apparire sui giornali le prime timide leccate di piedi, che non esiteranno a diventare un trionfo di bave, spugne e salive in caso di conquista del potere.

Il fatto è che anche lui, anche loro, sono vittime della grande bugia, della grande truffa della cosiddetta nuova politica della seconda Repubblica, che è tanto peggio della prima. E cioè che la competenza non serva. Bastano due urla in piazza, due banalità su Twitter o in un talkshow, due moralismi da fiaschetteria e si può mandare il primo che passa - una Pivetti, una Boldrini, una Raggi - sulle poltrone più delicate del potere ammantando questa operazione rovinosa con la retorica che chi ci rappresenta deve essere come noi, in modo che noi ci si possa immedesimare. E invece dovrebbe valere proprio il contrario. Chi ci comanda non deve essere come noi. Deve essere migliore. Molto migliore. Più intelligente, più colto, più freddo, più lungimirante, più cinico, più feroce, più coraggioso. Più tutto. E soprattutto diverso. Del tutto diverso. Perché è la differenza che fa la differenza. Altro che uno vale uno.

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