Ai tempi dell’università, il classico studente di lettere aveva una via maestra per sbarcare il lunario e tentare di mantenersi agli studi. Le supplenze. Licei, magistrali, professionali, industriali, tecnici, medie. Qualsiasi scuola, qualsiasi materia - dall’italiano al latino, alla storia e geografia, all’educazione civica fino al sostegno, senza averne i titoli - e qualsiasi lunghezza dell’incarico - un mese, una settimana, un giorno - faceva brodo pur di raggranellare qualche soldo.
Era tutto un gran casino, un gran roteare di istituti, plessi, aule, presidi, vicepresidi e colleghi di ogni foggia, risma e colore. Una sola cosa non cambiava mai. Certezza matematica. Sicurezza eburnea. Rocca di Gibilterra. Il sindacalista molesto.
La serialità del profilo lombrosiano e dell’atteggiamento da rivoluzionario del catasto era impressionante: appena individuava il gruppetto dei giovani supplenti, iniziava a roteargli attorno come uno squalo con la preda ferita. Sentiva l’odore del sangue. E appena si creava un pertugio in aula docenti, ti assaliva con la sua campagna di assoldamento di forze fresche da gettare nella madre di tutte le battaglie contro le armate del padronato, della massoneria e delle multinazionali. Ed era un comizio via l’altro. E basta con il riflusso di questi anni autoritari e dagli al paternalismo del governo e dagli a chi tenti di controllarci, di valutarci, di incasellare la libera cultura che sgorga dal basso, rigogliosa dei valori imperituri della liberazione, dell’antifascismo, dell’anticolonialismo, dell’antiliberalismo. E che toni, che pose, che occhi di bragia con noi poveri pivelli pulcini nella stoppa ai quali però - che generazione perduta, caro lei… - non fregava una beata cippa della rivoluzione proletaria, del sei politico e dei compagni che sbagliano, perché pensavamo solo a comprarci la macchina di seconda mano o a pagarci le vacanze con la fidanzatina. E che quindi, alla decima intemerata del sindacalista, inesorabilmente cisposo, pulcioso e forforoso e, vero punto di svolta, alla declamazione del suo programma elettorale - “Più tutto per tutti!” - prima esponevamo un sorriso di circostanza, poi iniziavamo a dargli del lungo per infine sommergerlo con una risata e farlo scappare inseguito da una gragnuola di cancellini, gessetti, torsoli di mela e smozzichi di focaccia rancida. Statisti incompresi.
Eravamo a metà degli anni Ottanta, ma dopo aver visto le meravigliose gesta dei sindacati sul caso Alitalia, spernacchiati sulla pubblica piazza pure dai lavoratori, uno torna indietro di trent’anni, si sente ancora giovane e, soprattutto, si mette di buonumore. Non è cambiato niente. Sono sempre loro. Sempre quelli. Sempre gli stessi. Cambia il mondo, cambia l’universo, cambia il globo terracqueo investito dalla più devastante e irreversibile rivoluzione digitale, globale, antropologica mai vista e loro sempre lì, adesi e coesi al loro bunker di marzapane, a declamare il loro vangelo movimentista, irredentista, gruppettista, mondialista, benaltrista. Che granitiche certezze. Che arruffata sicumera. Che pedagogia.
Perché è stato lì, proprio in quel momento di snodo lungo il crinale degli anni Ottanta, che questi non ci hanno più capito una mazza. Esattamente come il partito comunista, d’altra parte, che fino ad allora era sempre stato una cosa terribilmente seria. Così come era seria la Cgil, appunto. Dopo, è diventato un circo. Quel mondo non ha mai compreso e non ha mai accettato il crollo delle ideologie e invece di ridiscutere tutto sotto una lente che fosse finalmente laica ha continuato ad abbarbicarsi al suo apriorismo, che è ben presto diventato moralismo, anzi, doppiomoralismo, che gli permetteva di sbandierare una millantata superiorità intellettuale che invece non era altro che la cambiale per continuare a garantire tutti - soprattutto i somari e i lazzaroni - e impedire ai migliori di emergere. Il “più tutto per tutti!” di quell’oscuro sindacalista dei miei stivali ne era quindi la frase simbolo, il manifesto, la metafora.
Non è forse così anche nel caso Alitalia e negli altri mille che abbiamo visto in questi decenni di disastri politici e sindacali?
In quante battaglie di retroguardia abbiamo visto immolarsi i nostri eroi, certi che comunque alla fine sarebbe arrivato Pantalone a ripianare le nefandezze di aziende cotte, stracotte e totalmente fuori mercato? Guai a chi tocca la scala mobile, guai a chi tocca l’articolo 18, guai ai voucher, guai a chi tocca i dipendenti pubblici, guai a chi parla di doveri, guai all’alta velocità, guai a chi tocca la linotype. Guai, guai, guai! E mentre i nuovi padroni stanno facendo carne di porco dei nuovi schiavi, questi, salvo alcune eccezioni illuminate, proseguono nella difesa dell’indifendibile: “Giù le mani dagli eroici compagni acquafrescai! Giù le mani dagli eroici compagni sistematori di birilli!! Giù le mani dagli eroici compagni tagliatori di ghiaccio!!! Giù le mani dagli eroici compagni lampionari!!!!”. E soprattutto giù le mani dai distacchi sindacali. Distacchi nel senso che quello si distaccava dalla realtà. E pure dal posto di lavoro, visto che quando lo cercavi non c’era mai.
Oppure rispondeva alle tue domande molto pragmatiche - “perché il professore di applicazioni tecniche ha il posto fisso anche se è un analfabeta?”, “perché qui gli stipendi sono tutti uguali?” , “ perché qui diventano tutti di ruolo senza uno straccio di concorso?” – ti rispondeva intonando una suadente melopea sulle convergenze parallele, le contraddizioni del sistema, il declino dell’Occidente, l’inesausta lezione di Marx e Lenin corroborata da quella di Castro e del Che e tutta una sequela di fanfaronate che hanno lasciato in eredità a noi ragazzotti che non abbiamo fatto il Sessantotto una lezione indelebile.
Se vuoi combinare qualcosa di buono nella vita, ascolta questi signori con grande, grandissima attenzione. Parola per parola. Poi fai l’esatto contrario. E fu una saggia decisione.
Ps: Sostituite “Alitalia” con “Ticosa” e lo slogan “Più tutto per tutti!” con “O tutti o nessuno!” e confrontate i cervelloni di oggi con gli scienziati di ieri. Poi vedete un po’ l’effetto che fa.
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