Il borsellino. Il portamonete. Gli spicci sparsi dentro il posacenere della macchina. Le banconote spiegazzate. Il fermacarte del nonno. I ragazzetti che frugano nelle tasche di papà a caccia di qualche monetina dimenticata. I ragazzotti che armeggiano nella borsa della mamma alla ricerca di cinquanta centesimi finiti nella scatola dei trucchi. La busta con i soldi per il giardiniere. E per l’idraulico. E per il falegname. E per il pensionato tuttofare che ti ha appena sistemato la tapparella.
Passano gli anni, si avvicendano le generazioni, si stravolgono le fogge e i costumi, ma in fondo alla nostra anima restiamo pur sempre il paese dei Malavoglia. Padron ‘Ntoni interiori, Comare Maruzza per sempre, tutti raggomitolati dentro abitudini ataviche, birignao secolari, stili di vita che nulla e nessuno potrà mai riuscire a modificare, piccoli ma al contempo profondissimi familismi amorali da anni Cinquanta, anzi, da fine Ottocento, figli e figliastri di quell’Italia eterna, sotterranea, accidiosa che, alla faccia del dilagare degli smartphone e della civiltà social, continua a tessere la trama del quieta non movere, a suggere il colostro dell’eterno immobilismo.
Tra i provvedimenti più spassosi che ci vengono rifilati ogni anno da tutti i tipi di governo, nessuno escluso, c’è di certo quello della lotta al contante, una delle misure più irrealistiche e velleitarie che accompagnano ogni manovra economica d’autunno. La scenetta ormai è un classico. Arriva tutto tronfio ed egagro il primo ministro tal dei tali, accompagnato dal grigio, serioso e occhiuto ministro dell’Economia, a proclamare alla nazione che adesso basta, è arrivato il momento di diventare anche noi un paese civile, moderno e sviluppato che punti nel giro di pochi anni a raggiungere le vette di eccellenza assoluta nell’utilizzo della moneta elettronica degli Stati del nord Europa. Nei quali, come è noto, solo i rapinatori e i pusher girano con delle banconote nel portafogli. Via il contante: ogni transazione deve passare attraverso la carta di credito e i bancomat. Velocità, sicurezza, trasparenza, tracciabilità e, soprattutto, la bomba fine di mondo contro l’evasione fiscale, una misura formidabile capace di far emergere larga parte di quel sommerso che da sempre devasta l’economia italiana, marchio d’infamia della più inqualificabile delle ingiustizie sociali.
Tutto perfetto, quindi. Solo che, passati cinque minuti dalla roboante dichiarazione d’intenti, parte la guerriglia vietnamita trasversale, nella quale da destra a sinistra passando per il centro tutti pare abbiano un buon motivo per azzoppare la nuova legge. Con grande soddisfazione dei media, che anche in questo caso dimostrano la loro già celebre capacità di spiegare con chiarezza le cose ai lettori, il loro notorio senso della misura e, soprattutto, la loro totale assenza di tifoseria partigiana. C’è chi predilige la lettura mondialista-complottistica: “Il Grande Fratello planetario vuole controllare tutto quello che facciamo!”. Chi, invece, quella sociale-vittimistica: “I nostri poveri vecchini cosa volete che ne sappiano di Pin e Pos?”. Si passa poi a quella dietrologica-estorsiva-plutocratica: “E allora continuiamo ad arricchire quei banditi della banche!”. Senza dimenticare quella storico-memorialistica: “I soldi sono le nostre radici, i nostri affetti, i nostri legami con il passato: ci ricordano i tempi della fanciullezza quando compravamo il ghiacciolo al tamarindo con il nichelino donato dalla nonna!”. E per finire con il botto con quella benaltrista-catastrofista: “Con tutti i problemi che ci sono, dobbiamo perdere tempo pure con il bancomat: lorsignori pensassero piuttosto a far arrivare l’acqua corrente a Zafferana Etnea”. Tutto vero.
Ora, non ci sono dubbi sul fatto che le commissioni bancarie siano un ostacolo oggettivo che disincentiva in larga parte l’utilizzo di quegli strumenti e che la tracciabilità totale ponga dei problemi alla tutela della privacy personale. Così come è assolutamente evidente che chi vuole evadere trovi nel contante senza limiti una leva straordinaria: avete presente quei ristorantini o quei negozietti tipici al mare (ma solo in Italia, però: chissà come mai?) che quando devi pagare c’è sempre la macchinetta fuori servizio oppure è saltata la corrente oppure c’è il filo tranciato oppure deve passare l’elettricista oppure è colpa di mio cugino? Su questa cialtroneria all’italiana ci sarebbe da scrivere un saggio, perché noi quando c’è da fregare il prossimo e, soprattutto, il turista siamo campioni mondiali, ma tutto questo non basterebbe a confermarci ogni anno all’ultimo posto in classifica nel mondo civilizzato nell’utilizzo del denaro elettronico.
Evidentemente in questa ritrosia c’è qualcosa di più profondo. Qualcosa di addirittura antropologico, dimostrazione plastica dell’arretratezza culturale di una società che, nonostante picchi di sviluppo e di innovazione di assoluta eccellenza, resta nella sua struttura di base, nella sua trama sommersa, ancorata a dinamiche mentali davvero mediterranee, nella loro accezione più negativa. C’è un po’ di tutto, lì dentro. L’attaccamento fisico, tattile, morboso alle cose, alla roba, alla materialità dei soldi. La diffidenza secolare contro chi governa, chi comanda, contro gli altri in generale, a partire dai politici e dalle banche. La pretesa pervicace di non voler mai far sapere a nessuno gli affari propri, facendola coincidere con la volontà altrettanto pervicace di andare avanti a farci i comodacci nostri.
C’è dentro un po’ tutto quello che siamo. L’arte del rinviare, del posticipare, del derogare, dell’omettere, dell’insabbiare, del troncare e del sopire, dell’avvinghiarsi come cozze alle nostre piccole certezze, alla nostre sicurezze da rigattiere, alla coscienza antica che anche questa volta, come diceva Flaiano, la rivoluzione, causa maltempo, sarà rinviata a data da destinarsi. A proposito, chi ha un euro in tasca per pagare il caffè?
@DiegoMinonzio
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