«La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv, 3, 19). Sì è vero, eppure ci sono dei momenti nella vita di ogni uomo in cui, più che preferire le tenebre, ci si trova nelle tenebre, momenti in cui si è così a terra da non riuscire ad alzare lo sguardo verso il cielo.
In questi momenti non si riesce ad intravedere alcuna luce, alcuna stella, figuriamoci una stella cometa.
Spesso gli uomini sono malvagi e scelgono le tenebre ma non raramente, anche se non sono malvagi, si trovano nelle tenebre, come se il buio e lo sconforto si accanissero su di essi. Se si potesse risolvere tutto nella malvagità degli uomini a ben vedere non ci sarebbe nulla di risolvere, nulla da spiegare, sarebbe così e basta. Ma a volte, anche se non si è malvagi, non si riesce proprio a riconoscere la luce, ed anzi è come se non si avesse più voglia della luce.
Eppure, al di là della nostra stessa voglia, la luce è ancora venuta tra le tenebre e ancora una volta è venuto il Natale. È nato un bambino, e già questo, dopo tanti lutti, in un certo senso potrebbe bastare per non farci sprofondare nello sconforto; ma Colui che è nato è soprattutto quel bambino in cui l’Altissimo ha portato a compimento la sua alleanza con ogni uomo e con tutti gli uomini. L’incarnazione, infatti, deve essere intesa come l’estrema forma di alleanza di Dio con l’uomo: Dio si allea talmente con l’uomo da incarnarsi in esso, da decidere di compiere la stessa esperienza dell’uomo. Questo modo di intendere l’incarnazione aiuta a non cadere nell’equivoco di intendere la venuta di Dio sulla terra come una mera «discesa», vale a dire con una forma di generosa contaminazione - generosa e libera ma pur sempre contaminazione - dell’Alto/Santo con il basso/profano. Incarnandosi Dio certamente viene in soccorso dell’uomo ma al tempo stesso, proprio perché lo soccorre, rivela anche la dignità assoluta che questa creatura ha sempre avuto ai suoi occhi: lo soccorre proprio perché è alleato con lui, proprio perché, attraverso la sua creazione/alleanza, lo ha fin dal principio reso degno di essere un suo alleato.
In questo senso tutto ciò che riguarda l’uomo, ad esclusione del peccato, è degno di Dio, è talmente degno di Dio da poter diventare il luogo stesso del suo stesso abitare; di conseguenza, la “discesa” dell’incarnazione è in verità una «elevazione» ma non tanto nel senso del portare in alto ciò che sta in basso, ciò che è inferiore, quanto piuttosto nel senso ben più profondo e drammatico di affermare, svelare e confermare l’alto che il “basso” stato.
All’interno di tale prospettiva l’incarnazione non indica tanto l’occasionale acquisizione da parte di Dio di un corpo secondo la modalità dell’abito (l’incarnazione non è semplicemente una momentanea incorporazione), quanto piuttosto allude alla definitiva assunzione di tutta la realtà umana, o più precisamente dell’intero abitare umano. Ciò che dunque è qui in gioco, ciò che ogni Natale da duemila anni non si stanca di testimoniare, non è mai solo l’”abito”, ma più essenzialmente l’”abitare”, ed è proprio all’interno di un simile passaggio che il termine «carne» finisce per imporsi come l’indicatore per eccellenza dell’unità della persona umana apprezzata in tutti i suoi legami fisici e psichici, in tutte le sue gioie e i suoi dolori. La notizia è davvero sorprendente, al limite della comprensibilità. Neppure la nostra tristezza, la nostra angoscia, il nostro lutto, il nostro inconsolabile dolore riesce a sottrarsi a questo fascio di luce che, sempre e comunque, riesce a rendere gloria a tutto l’umano anche quando esso è messo alla prova come in questo “pessimo anno”. Lo ripeto, non lasciamoci distrarre: a Natale Dio è venuto ad abitare con noi e non solo a farci visita come accade durante i fine settimana.
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