Fino a un nanosecondo fa, Renzi era un fenomeno, uno scienziato, un cervellone, uno statista, un dono del cielo disceso sulla terra per tutto cambiare, tutto rottamare, tutto sfolgorare.
Uno fuori dagli schemi, anzi, uno che gli schemi li rompeva e inventava paradigmi, dettava la linea, stabiliva l’agenda, sparigliava le carte, infondeva sana e vigorosa e strafottente energia giovanile dentro il corpaccione molle, flaccido e corrotto della politica politicante di questa rancida repubblica delle banane. E come eravamo tutti lì, salvo rare eccezioni, noi pennivendoli di regime, a plaudire e osannare e celebrare e interpretare le gesta di tanto eroe, personificazione duepuntozero del Principe machiavellico e quanto ci inebriavamo a pensare e a ponzare e a grattarci la pera e scimmiottare e piroettare e pigolare e squittire e mugolare in ginocchio durante le sue inimitabili conferenze stampa crocevia tra McLuhan, Gassman e Fidel Castro. E quanto è bravo questo e quanto è diverso e quanto è fascinoso e quali e quante cose sarà capace di fare per noi italiani da così tanto tempo privati della speranza e del futuro dalle luride nomenclature dei partiti tradizionali. E, quindi, evviva il Renzi pensiero, evviva il Renzi system, evviva il Renzi style.
Adesso, è diventato un coglione. Se dovessero andargli male pure i ballottaggi, manca un niente che il primo ubriaco appena uscito dalla fiaschetteria dopo la partita lo prenda a gatti morti in faccia. E noi, sempre noi, quelli che nel suo stato nascente pendevamo dalla sue labbra, dalla sua boccuccia da furbo di Boccaccio e gorgogliavamo a ogni battuta, tic o birignao dell’unto del Signore, adesso passiamo le giornate, come tricoteuse sferruzzanti, a sentenziare e decretare e trombonare su quanto è stanco e quanto è loffio e, insomma, sempre le solite cose, sempre le solite palle, sempre con ‘sti benedetti ottanta euro e non è a questo modo che si investono le risorse pubbliche e non doveva fare così perché invece doveva fare cosà e non doveva allearsi con questo ma invece con quello e noi glielo avevamo detto e noi lo avevamo avvertito e noi avevamo inutilmente suggerito. Tutto vero. Basta leggere o ascoltare.
Ma la domanda, la vera domanda che, come diceva quello là, a questo punto sorge spontanea dall’inaspettato declino dell’impero renziano, non è tanto cogliere con stupefacente stupore stupefatto con quale rapidità le leadership in Italia si brucino una dietro l’altra senza che mai nulla cambi dell’assetto fanghiglioso e purulento su cui si regge il nostro grottesco baraccone, quanto invece come - inspiegabilmente - la corte dei soloni, dei consiliori, dei grandi analisti e opinionisti sia sempre la stessa. Sembra il palco del Politburo durante la sfilata delle forze armate a Mosca. Sempre gli stessi, sempre i soliti, sempre quelli: mancano solo Cernenko, Andropov e un gruzzolo di copeche del vecchio conio e il quadro sarebbe perfetto. E sempre a dire le stesse cose. Anzi, sempre a seguire lo stesso schema.
Arriva Monti, tutti giù sdraiati sotto il loden di Monti salvo poi, giusto un paio di anni dopo, metterlo in mezzo nel gioco dello schiaffo del soldato. Arriva Letta, tutti giù sdraiati sotto gli occhialini accademici di Letta, che se lo incrociano adesso in un boulevard di Parigi, cambiano strada e si toccano pure i gioielli di famiglia. Arriva Renzi, tutti giù sdraiati sotto i soliloqui di Renzi e ora invece basta un Civati qualsiasi dall’alto del suo zerovirgolauno a impartirgli lezioni di geopolitica. Che categoria meravigliosa.
Ma con Berlusconi sta andando pure peggio. Perché adesso, adesso che il cinghialone è caduto e rischia addirittura di lasciarci la buccia, è partita l’operazione del pietismo peloso, del rispetto fariseo al terminale, della riabilitazione postuma e quindi generosa, perché, insomma, il cavaliere era quello che era però a quest’ora avrebbe già vinto un paio di Champions, messo a posto la Merkel con una barzelletta delle sue e promesso un paio di milioni di posti di lavoro. Che sagace, inimitabile, pittoresco personaggio era Berlusconi, lo lasci dire a me, caro lei. E questo dopo aver usato qualsiasi strumento, ma davvero qualsiasi, comprese le peggio porcate paragiudiziarie e le peggio violazioni della privacy e del segreto d’ufficio, che fanno inorridire se infilzano qualche professorino da terrazza radical chic ma che invece erano del tutto opportune, anzi, doverose se servivano a scardinare la malefatte del peggior delinquente - addirittura peggio di Craxi, incredibile! - che l’Italia abbia mai visto.
D’altra parte, non si è maestri di doppia morale per niente.
E diventa ancora più maramaldo andare a sfrigolare il coltello nella piaga dello sbando ottosettembrino che in questi giorni sta travolgendo quel che resta di Forza Italia. E che, come in ogni partito dove il leader è tutto e il resto è niente, ci fa assistere allo spettacolo grottesco delle salmerie, dei servi, delle sciampiste, dei traffichini in fuga da Caporetto con un’esibizione di squallore non solo politico ma anche etico e fisiognomico - da queste parti ce ne sono due o tre che sembrano usciti da una sceneggiatura di Flaiano - che è forse la vera responsabilità storica che si può imputare a Berlusconi. Non aver mai costruito una classe dirigente ed essersi invece scientemente circondato di signorsì.
Il problema vero e, di conseguenza, la vera sfida non è tanto il susseguirsi di presidenti del consiglio più o meno fugaci o più o meno capaci, ma quello di un sistema della comunicazione un po’ più serio e un po’ meno conformista.
D’altronde, politica e giornalismo non potranno mai essere, almeno da noi, due cose diverse, perché nascono dallo stesso ceppo e germogliano dalla stessa schiatta, che attiene molto alla conquista e alla gestione del potere e molto meno alla libera partecipazione politica e alla libera informazione dei cittadini. Ma questa è solo accademia, in questo paese di sepolcri imbiancati.
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