Uno si mette d’impegno e si dice e si ridice e si convince e si autoconvince, grazie a un clamoroso training autogeno, a un’immanente seduta di autocoscienza, che questa volta andrà meglio. È sicuro. Peggio non potrà andare. Perché questa volta, almeno questa volta, ce la faranno i nostri eroi a mettere in scena una serie televisiva che non riduca la storia d’Italia a una macchiettata, una buffonata, una cialtronata, una pièce da Bagaglino, da Salone Margherita, da avanspettacolo felliniano.
E, quindi, uno si siede sul divano, concentrato e compreso e coeso e adeso come durante una finale di Champions, pronto a tutto perdonare, tutto minimizzare, tutto relativizzare, pur di uscire dal ruolo dello stroncatore a prescindere.
Poi, però, inesorabile, alla prima inquadratura del protagonista, che dovrebbe plasmare sul suo volto, sulla sua mimica, sulla sua maschera esistenzialmente teatrale tutto il carico di contraddizioni, di marciume e di genesi di uno stato nascente della rivoluzione di Manipulite, torna la spietata riflessione che ci perseguita da anni. Non è che la cosa migliore di Stefano Accorsi resta ancora lo spot del Maxibon, quello del «du gust is megl che uan»? Rivelazioni. E così, appena svelato il bluff di “1993” – serie tv andata in onda qualche giorno fa su Sky con l’obiettivo di raccontare l’anno del terrore giudiziario, dopo aver invece narrato la genesi e l’esplosione di Tangentopoli in “1992” - allora si sono rotte le dighe e sul web è partito il circo. «Sottotitolate Tea Falco!», «Incredibile, sono passati dieci minuti e Miriam Leone non si è ancora accoppiata su un divano!», «La Chiatti rispetto alla Leone sembra la Magnani!», «Di Pietro parla come Gennaro Gattuso, ma assomiglia a Magalli!», «Di Pietro che azzecca i congiuntivi non si può sentire!» e, soprattutto, la mitologica «Scusate, mi sono distratto un attimo: quando entra in scena Genny Savastano?». Insomma, un massacro. I soliti disfattisti.
Ora, premesso che il vero problema della serie «nata da’un’idea di Stefano Accorsi» è probabilmente proprio Stefano Accorsi (uno dei più clamorosi bluff della cinematografia nostrana degli ultimi vent’anni), se si dovesse parlare di una fiction italiana fatta con i piedi, non ci sarebbe neppure da perderci del tempo. Sai che novità, che di zozzerie senza idee, senza budget e attaccate insieme con due pennellate di luoghi comuni e due bonazze da cocktail ce n’è pieni i palinsesti. Nonostante proprio Sky abbia avuto la forza economica e il talento di realizzare negli ultimi anni alcuni prodotti davvero eccellenti, da “Romanzo criminale” (il meglio sceneggiato di tutti) a “Gomorra”, fino al discutibile ma talentuosissimo “The Young Pope” di Sorrentino. Il problema vero però è un altro. La persistente incapacità non tanto dei nostri attori - già endemicamente scarsi di loro - ma soprattutto dei nostri autori - perché se uno ascolta prima i dialoghi di “1993” e poi quelli di “Fargo” mi sa che si spara… - , e forse di noi tutti, di fare davvero i conti con la nostra storia. Soprattutto quella recente. E, quindi, questo non è tanto un tema televisivo o cinematografico, quanto culturale, psicologico, antropologico.
Ogni paese vive quei momenti di svolta nei quali le sue basi, le sue certezze vengono messe in discussione, le sue leadership colpite alla radice, la sua coscienza collettiva traumatizzata. Pensate a quello che ha significato il Vietnam per gli Stati Uniti o la guerra d’Algeria per la Francia. Bene, il terrorismo e Tangentopoli non sono state da meno per l’Italia.
Sono quelle le nostre rivoluzioni del dopoguerra, che tutto hanno travolto e dopo le quali, checché se ne dica, tutto è cambiato. Ma allora dov’è il grande film che rielabora gli anni della crisi? Dov’è il grande romanzo? Perché nessuno ha girato il nostro “Il cacciatore”? Perché nessuno ha scritto la nostra “Pastorale americana”? Dov’è il grande affresco balzachiano? Dove la grande opera catartica, che tutto riassume, tutto rielabora, tutto rende metafora comprensibile e assimilabile non solo da chiunque abbia vissuto quegli anni, ma dall’universomondo? Dove la grande inchiesta giornalistica, fatta eccezione per la magnifica “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli? Dove, soprattutto, il grande moto di comprensione e di riconciliazione nazionale a tragedia conclusa? Fanfaluche, sogni, fantasie, nel paese nel quale ancora ci si accapiglia - questo il vero Male che ci divora - su Giulino di Mezzegra, il 25 aprile e le foibe. Dove, infine, la grande serie tv?
Beh, non certo questa. Qui siamo all’anno zero, altro che 1993. La serie ha l’ambizione di mischiare realtà a finzione, personaggi storici a personaggi immaginari - un po’ come Tolstoj in “Guerra e pace”… - e di raccontare fatti realmente accaduti con i moduli narrativi tipici del romanzo - un po’ come Truman Capote in “A Sangue freddo”… - con l’obiettivo di ricostruire un quadro completo, dettagliato e soprattutto non formale di quel periodo storico e di tratteggiare le pieghe di una società travolta dagli scandali, ma già pronta a riposizionarsi sui codici dei nuovi padroni del vapore e la loro promessa di una nuova ed eterna eudaimonia. Vasta opera. Piccolo risultato.
Visto che non si riesce a uscire mai dall’alveo del macchiettismo, dal ghetto del caratterista - il leghista bifolco e gutturale venuto giù dalla pianta, il faccendiere spietato che però da giovane era un gruppettaro extraparlamentare, la dama nera viziata e viziosa, la starlette pronta a tutto pur di arrivare in prima serata - assommando banalità a banalità, luogo comune a luogo comune. E, allo stesso modo, non si esce mai dalla impostazione caricaturale dei personaggi storici. E se si pensa di ricostruire un’epoca con i “diciamo” di D’Alema, i “che c’azzecca?” di Di Pietro o l’accento da cumenda di Berlusconi, allora tanto valeva tenersi Pippo Franco, Oreste Lionello e Leo Gullotta. Perché al Bagaglino, almeno, le macchiette le facevano bene.
[email protected]@Diegominonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA