La cronaca, per fortuna, non ci squaderna sotto gli occhi solo vergogne purulente come il caso Regeni o schifezze sudamericane tipo i conflitti d’interesse dei nostri politici di destra, di centro e di sinistra. No, grazie al cielo, giusto per rendere un po’ più lieve la nostra vita grama, regala anche momenti spassosi che, chissà perché, generalmente non si fila mai nessuno.
Qualche giorno fa, ad esempio, “Repubblica” ha dato notizia di un provvedimento del Tribunale di Milano che ha risolto un contrasto tra genitori sull’istruzione da dare ai loro figli minorenni. Ora, interessa poco il contesto della vicenda, i motivi della separazione e il dissidio tra il padre, che voleva frequentassero un istituto statale, e la madre, che ne preferiva invece uno cattolico. Il vero punto è che la sentenza, dando ragione al padre, ha stabilito che solo la scuola pubblica rappresenta una scelta neutra, mentre invece quella privata può condizionare l’educazione dei ragazzi, orientando “il minore verso determinate scelte educative o culturali in genere”. Neutra. Neutrale. La scuola statale sarebbe una casa di vetro, cristallina, algida, imperturbabile, incondizionabile, equilibrata, pluralista e aperta a tutte, ma davvero tutte, le sensibilità, senza preferirne o escluderne alcuna, e proprio per questo non condizionerebbe la formazione degli studenti. Tutto vero.
Beh, alzi la mano chi non la consideri una delle notizie più comiche dell’anno. E alzi la mano chi non si sbellicherà dalle risa tra tutti quelli che abbiano memoria di cosa sia stata la scuola pubblica negli ultimi quarant’anni, quella scuola plasmata fin nel midollo dalla mitologica e indimenticabile e meravigliosa stagione sessantottarda. Altro che neutralità. Se mai è esistita un’istituzione totalmente edificata e modellata su un’unica cultura organica, omogenea e dominante che ha scientificamente fatto piazza pulita di qualsiasi altro approccio culturale, ricostruzione storica e istanza pedagogica è stata proprio la scuola pubblica. Che per anni ha rappresentato la metafora della parificazione coatta, della massificazione dentro un unico sentire comune, dell’ideologizzazione, della formazione di un pensiero collettivo conformato ai sacri testi e ai sacri autori sanciti dalla retorica repubblicana. E la guerra di liberazione e la sinistra movimentista e la demagogia totalitaria del tutto dentro il pubblico e del niente fuori dal pubblico e le classi popolari e le schitarrate in aula con le canzoni dei partigiani e il sei politico e il siamo tutti uguali e tutto a tutti e la proprietà è un furto e i supplenti forforosi che i voti non servono più e i sindacalisti pulciosi e cloro al clero e dagli al padronato e alle multinazionali e i compagni che sbagliano e lo Stato dov’è e lo Stato non c’è e lo Stato cos’è e tutto il resto di questo pattume che ha ammorbato legioni di insegnanti che, a loro volta, hanno procreato plotoni di studenti bambocci pronti a iscriversi a scienze politiche o a scienze della comunicazione e lì veleggiare, tra una pandiculazione e l’altra, verso il dodicesimo anno fuori corso, tanto la pagnotta la porta a casa il papà reazionario. Insomma, un’occupazione gramsciana, anzi, la sua caricatura - perché Gramsci è stato un grande intellettuale - della quale è però parimenti responsabile anche l’Italia che stava dall’altra parte, che ha preferito regalare agli altri scuola, università ed editoria, tanto a lei importava solo farsi gli affaracci propri e che del culturame si occupassero i comunisti. Ogni paese ha la borghesia che si merita...
E la constatazione che nella scuola pubblica ci siano stati e ci siano fior di professori che, nonostante le paghe da fame e il nessun rispetto sociale, hanno saputo formare in maniera impeccabile i loro ragazzi, non cambia di un millimetro il ragionamento. Che scoperta, ogni categoria ha i suoi, tanto è vero che pure nelle redazioni, luoghi tra i più professionalmente squalificati e lombrosianamente impresentabili dell’universo mondo, ci sono dei bravissimi giornalisti. Il fatto è che la cifra complessiva, l’agenda delle priorità è sempre stata dettata da quella cultura lì, da quella roba lì, da quell’approccio educativo che tutto può essere fuorché laico, nel senso più nobile del termine, e tantomeno neutrale. E sia chiaro che chi scrive questo pezzo è, almeno in questo caso, davvero credibile, perché non è un ultras della scuola privata, ha svolto - visto che era figlio della serva - tutto il suo percorso scolastico nel pubblico e anche la scelta dell’università a cui iscriversi è stata risolta grazie a un semplicissimo algoritmo: quella, tra le pubbliche, che costava meno.
Ora, è vero che sono passati tanti anni da quelle epoche mefitiche e consociative - quello era un andazzo che andava bene a tutti: tante assunzioni, nessuna competizione, stipendi bassi ma sicuri, pace sociale - che hanno devastato per sempre scuola e università. Ma anche oggi, anche se siamo passati dai tazebao agli smartphone - il brodo di cultura è troppo spesso ancora quello lì e quello che fa ancora più impressione è che sia lo stesso che informa pure la magistratura - altro ambientino su cui ci sarebbero un sacco di cose da dire - e che tende a vedere il privato come un pericolo, un deviato, un mascalzone, un eversore, un evasore, un estorsore. Almeno il privato presenta subito le sue regole di ingaggio: noi siamo la scuola dei cattolici, dei protestanti, dei buddisti, dei fachiri, dei virtuosi del mandolino, dei baristi acrobatici, dei vegani, degli astronauti o di chi volete voi e, quindi, prepareremo i vostri ragazzi secondo queste direttrici. La scuola pubblica no. Millanta laicità, indipendenza, egualitarismo e neutralità quando invece è ben chiaro - basta vedere i programmi e gli autori scelti, sempre gli stessi - dove vuol andare a parare. Sempre da quella parte. Quella del politicamente corretto, del conformismo, del benaltrismo. A che ora suona la campanella?
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