Dieci giorni dopo la strage non è ancora il momento di tacere. C’è una sgradevole verità ricordata da tutti gli esperti: il sistema Como aveva preso in carico quei quattro bambini, il sistema non ha funzionato e dunque a fallire non è stata soltanto la mente del papà assassino e suicida. Senza buttare quattro o cinque croci addosso a nessuno, serve una riflessione radicale e approfondita che consenta alla città e alla sua amministrazione di ripartire. Ripartire provati da una tragedia senza precedenti, ma in qualche modo più consapevoli e forti dopo l’indispensabile approfondimento sulle fragilità che non hanno consentito di scongiurare questo orrore e sugli strumenti da adottare per scongiurarne altri.
Eppure, ancora non sappiamo se i Servizi sociali del Comune abbiano avviato lo studio o la revisione del loro operato e nemmeno se lo ritengono necessario. A giudicare dalle poche dichiarazioni rilasciate sin qui, sembrerebbe il contrario. «Siamo stati massacrati, ma io ritengo che i Servizi sociali abbiano fatto tutto il possibile», ha detto la dirigente del settore.
La stessa che ha portato in consiglio comunale, e solo lì, la ricostruzione di sei mesi drammatici. Tra servizi e famiglia Haytot ci sono state incomprensioni, litigi, silenzi. Una ricostruzione talvolta reticente sugli interrogativi consegnati dall’ultima lettera del papà che si accingeva a trasformarsi in assassino e suicida.
Mettendo a confronto queste due verità è stato possibile capire, per esempio, che negli ultimi tre mesi della loro stentata esistenza, quei quattro bambini non hanno mai visto l’assistente sociale. Ci sono state visite domiciliari, hanno saputo i consiglieri. Ma, evidentemente, soltanto all’inizio della cosiddetta presa in carico. I consiglieri, come noi, non sanno quante. Una, venti? Come noi non sanno nemmeno se di solito si va a casa delle famiglie in difficoltà, se le visite sono ritenute utili, in questi e in altri casi. Se le difficoltà di gestione di un soggetto altamente problematico come quel padre consentano di intrattenere i rapporti con quattro minori affidati alla città soltanto attraverso il tramite di persone provenienti dal mondo del volontariato. Come noi, i consiglieri non sanno nemmeno se 45 giorni di assenza da scuola potevano costituire un campanello d’allarme o se - con il senno di poi, certo -si ritiene che è stato sbagliato qualcosa. «Ci dirà la politica se verranno decisi nuovi indirizzi e disposte nuove risorse», ha dichiarato la dirigente.
In effetti è innanzitutto alla politica, in particolare al vicesindaco con la delega ai Servizi sociali, Alessandra Locatelli, e al sindaco Mario Landriscina, che il giornale rivolge invano queste e altre domande da ormai dieci giorni.
Entrambi si sono appellati a un segreto istruttorio a cui nessuno, loro compresi, ha badato quando in sala civica è stata presentata la relazione dei Servizi sociali. Il giornale non chiede nomi e non ha presunti colpevoli da massacrare. Ritiene che servano importanti chiarimenti e riflessioni da girare alla città, così come ha fatto chiedendo al sindaco di proclamare un lutto in cui si riconoscesse tutta Como. Lo ringraziamo per averlo indetto, risparmiandoci un precedente che non avrebbe avuto uguali in Italia. Non lo possiamo ringraziare per i giorni di silenzio, le mezze frasi, le mancate smentite - sue e del vicesindaco - alle voci e alle supposizioni circolate ovunque secondo le quali esisteva un veto dei leghisti in Giunta. A sconfessare questa interpretazione è intervenuta la Lega provinciale, non i suoi assessori di Como. E non il sindaco, che solo ieri ha affidato a una debole nota una altrettanto fragile smentita. Ancora non sappiamo questo e altri perché.
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