Di solito le campagne per i referendum sono animate dai sostenitori del sì e del no, oppure in caso di esito scontato e in presenza di un quorum da raggiungere, da chi incita a recarsi alle urne e da coloro che esortano a restare a casa e magari fare una bella gita domenicale.
Sul terreno del quesito voluto dalla Lega in Lombardia e Veneto per rivendicare una maggiore autonomia delle due regioni, invece, combattono gli esponenti politici che caricano la consultazione di significati e quelli che li tolgono. Per i primi, l’idea di consultare i cittadini su questo argomento darebbe più forza alle istituzioni regionali e ai loro rappresentanti nella contrattazione con Roma. I secondi, sulla scia dell’esempio dell’Emilia Romagna, fanno notare che nella Costituzione esiste già un meccanismo che consente di sbrigare la pratica senza scomodare gli elettori e gravare sulle casse pubbliche.
Tra gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra si registra un evidente trasversalità. La Lega lo ha organizzato e perciò spinge al massimo il referendum, Forza Italia si è accodata all’alleato, Fratelli d’Italia è contraria. Dall’altra parte il Pd si è diviso (che notiziona, eh) tra coloro che da tempo tentano di inseguire il Carroccio sul tema delle autonomie e delle rivendicazioni territoriali e tra chi indica nella modalità emiliana la strada corretta per arrivare all’obiettivo.
A ben guardare ci sono valide ragione dall’una e dall’altra parte. Non si può negare, però, che l’idea di ottenere maggiore autonomia e risorse finanziarie per i territori del Nord rispetto al governo centrale, sia largamente diffusa e condivisa. E non da oggi. Allora, il referendum, al di là dei suoi eccessi propagandistici e propedeutici alla non lontana campagna elettorale per il rinnovo delle rappresentanze nelle due regioni e ai costi esorbitanti (ma è successo anche per altre consultazioni su materie a più marginali), può rappresentare l’ennesima occasione di mettere al centro del dibattito una questione, su cui il livello centrale farebbe bene a non ribattere con le consuete bizantine orecchie da mercante. Finora qualunque tentativo di portare propellenti per i territori locomotive d’Italia ha fruttato esiti deludenti. Il federalismo fiscale, nato già gracile, è stato di fatto soffocato in culla dall’acuirsi della crisi economica e dal governo Monti. Ora che si percepiscono segnali di ripresa, il momento potrebbe essere propizio per riproporre il tema e cercare di riportarlo al centro del dibattito politico. Che debbano essere le Regioni a farsene carico è opinabile. Gianfranco Miglio che un posto nel Pantheon leghista se l’è pur conquistato, indicava i Comuni come soggetti privilegiati del suo modello federalista e teorizzava un accorpamento delle quindici regioni italiane in tre marco aree.
Il dibattito, insomma, è ancora aperto e gli sbocchi possibili sono molteplici. A patto, appunto che vi sia, anche dopo una consultazione dall’esito scontato in termini di risultati e in cui conterà solo l’affluenza, la volontà di continuare a discutere e di arrivarne a una con coraggio e onestà politica.
Il rischio, magari remoto ma sempre latente, è può anche essere quello di quella deriva catalana che sta facendo male tanto alla comunità di Barcellona quanto al resto della Spagna. Vero che la realtà del Nord Italia presenta tratti nettamente differenti (più in Lombardia che non in Veneto). Ma a furia di bussare senza che nessuno apra, la tentazione di sfondare la porta potrebbe anche prevalere.
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