Di solito funziona così. Si avvicina un grande evento e tra noi cervelloni dell’informazione scatta il Circo Barnum. E come la spieghiamo noi al popolo bue la realtà effettuale delle cose, signora mia, lei non può capire. Noi professori, noi scienziati, noi pulitzer, noi fulmini di guerra che la sanno lunga e hanno girato il mondo e consumato le suole delle scarpe e la camicia stropicciata e le tre di notte in rotativa e caffè e sigarette e sigarette e caffè e urlacci e gole profonde e tutto il resto della magia di questo pazzo pazzo mestiere così bohémien che poi è pur sempre meglio che lavorare e bla bla bla…
Ed è ovvio che anche alle elezioni negli States andrà così, perché i nostri big data dicono cosà e le radici profonde dell’economia e l’idem sentire delle comunità e la cultura condivisa dei ceti emergenti e dove va l’Occidente e dove spira il vento e i poteri forti che dicono e le giovani generazioni che spingono e le strategie planetarie che strategizzano e il mondo globalizzato sempre più piccolo e interconnesso e il globale locale e il locale globale e questo e quello e quell’altro ancora. E pensiamo e ponziamo e discettiamo e regaliamo spizzichi di verità ai tontoloni seduti nel loro brutto tinello marron.
Poi, guarda un po’, accade che si verifica l’esatto contrario. E che noi intelligentoni non ci abbiamo capito una mazza. Perché i giornalisti della realtà non capiscono niente. Nulla. Zero. Zero al quoto. I giornalisti – i giornalisti dei giornaloni nazionali e internazionali, naturalmente, mica noi poveri straccioni di Provincia – non sanno neanche cosa sia la realtà. La loro realtà è quella che si immaginano nel loro mondo separato e ovattato che prospera sull’autoreferenzialità, sul narcisismo, sullo snobismo, sull’autismo e, soprattutto, sul paraculismo, visto che i pezzi non si scrivono certo per i lettori – che credete? – ma per compiacere il proprio ego, il proprio direttore, il proprio editore.
E così il mondo che auspichiamo nella nostra pièce assume forme e dimensioni che piacciono a noi e che ci fanno sentire indispensabili e pedagoghi, mentre quello reale se ne va tranquillamente per la sua strada, che non ha nulla a che fare con la nostra. E siamo in buona compagnia, perché fra noi, i sondaggisti e gli analisti economico finanziari ci sarebbe da fare un bel scartafaccio e usarci come esca per il camino. E non è mica un caso isolato. Su Trump non abbiamo capito un tubo. Sulla Brexit pure. Sul boom di Renzi alle Europee idem e ancora di meno su quello di Grillo alle politiche. Sul nuovo Papa siamo cascati tutti quanti giù dal pero. E sul non aver capito una cippa del trionfo di Berlusconi nel ‘94 e della prima emersione della Lega nel ‘90 si sghignazza ancora adesso.
E non è mica finita. Non solo i media non capiscono la realtà che dovrebbero raccontare, perché poi, quando tentano di influenzarla - 364 giornali americani per la Clinton, 9 per Trump – i cittadini o non li leggono o fanno il contrario di quello che suggeriscono. E con radio e tivù è la stessa manfrina. Non è che abbiamo un problemino da queste parti, putacaso? Ma il bello deve ancora arrivare. Perché almeno i vertici del “New York Times” hanno ammesso che i loro cronisti non hanno capito, non hanno studiato, non sono usciti dai loro uffici di Manhattan e dai loro profili twitter, insomma, hanno fatto una colossale figura di palta soltanto per colpa loro. Da noi, invece, non a caso siamo la repubblica dello zafferano, la procedura è sempre la stessa che in questi giorni ha regalato a noi pennivendoli di serie D momenti di grande spasso. Gli stessi identici tromboni, sapientoni, professoroni che avevano catechizzato le masse sull’ineluttabile vittoria della Clinton perché, caro lei, queste sono le onde del destino che noi sacerdoti del sapere abbiamo decrittato, non è che sono andati a seppellirsi dentro una buca fino alle elezioni del 2052. No. Dopo un nanosecondo hanno iniziato a ripontificare e ricatechizzare e ritrombonare su quanto fosse ineluttabile il successo di quell’altro.
E da lì in poi è partito il Circo Medrano. E il riscatto dell’America profonda e la rivolta dell’uomo bianco frustrato, umiliato e disoccupato e il Middle West e gli eredi dei pionieri con il pick up, la camicia a quadrettoni, il pastrano in bigello e il fucile automatico e la pulsione anti immigrati e lo sfregio al politicamente corretto e l’onda dei populismi e l’assedio degli incazzati al palazzo d’inverno e bla e ribla e straribla. E non c’è requie: a ogni ora ti becchi il riporto di Donald e il tacco 16 di Melania e gli hamburger e le pannocchie e i coyote e la Route 66 e De Niro pirla e Eastwood genio (ma non era il contrario?) e tutti lì a millantare conoscenze, competenze, scienze e coscienze che invece nessuno ha. Perché tra di noi, salvo folgoranti eccezioni, nessuno sa niente. Come sempre, aveva ragione Longanesi: “Un vero giornalista: spiega benissimo quello che non sa”. Applausi.
La verità è che noi siamo parte di quell’establishment contro cui sta covando la rivolta delle masse gassose deideologizzate e sballottate dai venti della rivoluzione globale e digitale e, quindi, ci nutriamo di luoghi comuni, di banalità, di copiaincolla del pensiero unico benpensante, insomma, di una sterminata, ottusa e arrogante brodaglia conformista. Voi direte: dai, non può essere tutto così. Certo che no, ovviamente. Ci sono ancora dei giornali, soprattutto quelli locali, che, non tanto per talento, figurarsi, quanto per legittima difesa – il paese è piccolo: se scrivi una cretinata vengono a cercarti sotto casa – hanno ancora la capacità di raccontare la propria terra, di individuare i problemi che la affliggono e di farsi voce credibile della comunità. E magari raccogliere 60mila firme – tutte vere – per protestare contro la distruzione del lungolago più bello del mondo. Beh, se uno avesse in tasca un soldo da spendere per un giornale, farebbe bene a spenderli per quel tipo di giornale lì.
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