La schiscetta non vale
una battaglia a scuola

Libera schiscetta in libero Stato. Il “partito” dei genitori che non vogliono sottostare all’obbligo della mensa sembra avere vinto, per sentenza della corte d’appello di Torino destinata (è proprio il caso di dire) a fare scuola in tutta Italia. E lo slogan pronto all’uso impazza già sui giornali e nel web: libera schiscetta in libero Stato, per l’appunto. Ed è proprio questa “frase fatta” a meritare una prima riflessione.

Il refrain parte da lontano: era la prima metà dell’Ottocento quando, in quella che è nel bene e nel male la culla dei principi di libertà occidentali, la Francia, venne coniata l’espressione “libera Chiesa in libero Stato”. Al di qua delle Alpi la fece propria Cavour, in un’occasione non proprio marginale, la prima seduta del Parlamento dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861, per chi avesse già rimosso le celebrazioni del 150°) e per un obiettivo che riguarda tutti gli italiani di qualsiasi confessione e tutti i cristiani sparsi per il mondo: sostenere lo spostamento della capitale a Roma, possibile solo nel momento in cui il Papa avesse rinunciato al potere temporale sull’Urbe per limitarsi a quello spirituale. Centocinquantacinque anni dopo, nonostante le cadute di stile in cui sono incappati i più o meno recenti inquilini del Campidoglio, è difficile non considerare quel passo, e quindi la frase che lo ha messo in moto, una conquista di civiltà.

Negli ultimi tre-quattro lustri lo slogan è ritornato di moda, sostituendo però la parola “chiesa” con “scuola”. Spesso in bocca anche a uomini di Chiesa, o ad essa vicini: quelli che sostengono la libertà di scelta delle famiglie e quindi la possibilità di rendere accessibili a tutti le scuole private, che in Italia sono ancora per larga maggioranza cattoliche (ma non solo, naturalmente), attraverso finanziamenti di cui, chi la pensa in maniera opposta, ha spesso messo in dubbio la costituzionalità. Anche questo tema, oggetto di un “compromesso storico” quando Luigi Berlinguer, ministro dei governi D’Alema I e II, varò per primo i decreti che parificarono, almeno sulla carta, scuole statali e non, è indubbiamente di grande spessore e può portare conseguenze importanti sulla vita di tutte le famiglie italiane. Chi, mettendo da parte le ideologie, in questo mondo che cambia velocemente e apre ogni giorno mille scenari presenti e futuribili, non ha sognato almeno una volta una scuola diversa da quella che ha frequentato (o che frequentano i suoi figli), più aperta a nuove sperimentazioni linguistiche o tecnologiche, piuttosto che a nuovi metodi per insegnare le materie più classiche? Se non fosse che in Italia il dibattito diventa scontro politico, portato avanti più con la pancia che con la testa, a questo si dovrebbe pensare quando si parla di “Libera scuola in libero stato”: a metodi didattici e contenuti scelti dalle scuole con maggiore autonomia e “in concorrenza” (positiva e stimolante) tra loro. Invece, molto spesso, si torna all’Ottocento e si rispolvera un macchiettistico scontro tra Stato e Chiesa, tra laici e cattolici. E mentre in Svizzera questo tema, appunto perché importante, lo hanno sottoposto a referendum, peraltro arrivando a bocciare i finanziamenti alle scuole private, da noi si promuovo referendum su temi che difficilmente l’elettore riesce a capire e che, infatti, non raggiungono il quorum.

Fate queste premesse, sentire o leggere “libera schiscetta in libero Stato” fa un po’ sorridere. Ma anche la schiscetta ha la sua importanza. Si suggerisce, per non inaridirsi in una querelle burocratico/giuridica, di vedere il film indiano “Lunckbox”. Dietro a una schiscetta - di cui il titolo del film non è altro che la traduzione anglofila alla moda - c’è l’amore di chi la prepara per chi la consuma, due vite e a volte persino di più (nella pellicola tre, perché viene recapitata al destinatario sbagliato). Anche la possibilità per gli alunni di portarsi il pranzo da casa, invece di essere costretti a mangiare e pagare quello fornito dal servizio mensa, non è una questione di lana caprina, come possono testimoniare molti genitori. A partire da chi scrive, che, da rappresentate in anni ormai remoti, si è trovato a parlare di progetti con maestre in pausa pranzo dotate di schiscetta, mentre i loro alunni mangiavano a mensa il cibo preparato da un’ottima (per fortuna) cuoca però sorvegliati da una figura esterna pagata dal Comune (questa invece inadeguata e così si scatenò l’ira di mamme e papà che richiamarono il principio, ribadito dalla sentenza dei giorni scorsi, che la mensa è tempo scuola, formativo ed educativo, quindi di competenza degli insegnanti). Al successivo ordine di scuola cambiò il problema: questa volta era il cibo a lasciare a desiderare e c’erano alunni che a mensa non ci volevano più andare. In un caso e nell’altro, va detto, si trovò una soluzione di buon senso con gli insegnanti e i dirigenti del momento. Oggi, che si affermi il principio della “libera schiscetta in libero Stato” può far piacere. Ma il fatto che tocchi a un giudice farlo, dopo una strenua battaglia legale che ha visto 58 famiglie contrapposte all’amministrazione scolastica del Piemonte, rende difficile accoglierlo come una conquista di civiltà, per quanto piccola possa essere. Sembra, piuttosto, una sconfitta di un’altra espressione proverbiale, coniata nientemeno che dal nostro Plinio il Vecchio: “cum grano salis”.

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