La scuola italiana ha bisogno di una stabilità e soprattutto di nuove idee, di nuovi metodi, di personale che possa portare novità nell’ organizzazioni scolastica. I dati che riguardano Como, sull’età media degli insegnanti, che vedrebbero gli under 35 ad una percentuale assolutamente minoritaria, che non riesce a superare il 5%, rispecchiano una situazione diffusa nel resto d’Italia. Proprio questo dato apre tutta una serie di considerazioni.
Non è detto che l’insegnante giovane possa risolvere tutti i problemi della scuola, ma senz’altro prospetta una possibilità di cambiamento e soprattutto un investimento nel tempo, proprio sul fronte della formazione e delle nuove tecnologie, perché i giovani insegnati hanno maggior dimestichezza con l’informatica, con la possibilità di far scuola in modo diverso, una didattica che integri l’insegnamento tradizionale con quello multimediale. E questo per offrire agli alunni possibilità in più, che non prevarichino da una parte la tradizione di una scuola del “fare” che ha sempre saputo dare buoni risultati in termini di studio e di apprendimento.
La situazione odierna invece richiede che anche la scuola aggiorni i suoi strumenti e affianchi, ma non sostituisca, la scuola del fare e quindi possa utilizzare il computer, le Lim, i linguaggi multimediali che fanno parte del mutato ambiente in cui bambini e ragazzi oggi crescono e hanno bisogno di un approccio educativo all’uso di questi strumenti, proprio per evitare la superficialità nell’utilizzo di quelle conoscenze apprese sul Web.
Possono dare molto gli insegnanti più giovani alla nostra scuola, eppure per una serie di motivi che si trascinano, cronicamente, perché non si vogliono risolvere i problemi, ci si trova sempre a creare nuovo precariato, senza permettere un ingresso “di merito”, attraverso i concorsi, come è avvenuto in passato, in modo a volte disorganico. Non entriamo nella questione del precariato che è troppo complessa e solo in parte concerne con questo aspetto: la scuola italiana negli ultimi decenni ha vissuto solo di riforme a metà, quelle che ciascun governo che si è succeduto ha voluto impostare come “soluzione” per il cambiamento della scuola, ma nessuna ha potuto via funzionare a pieno regime, perché subito annullata, anche nei provvedimenti attuativi, dalla nuova “riforma” che eliminava o cambiava quella precedente. E’ chiaro che in un quadro di riferimento così estemporaneo la scuola non possa mutare (o se lo fa è solo a parole) e gli insegnanti non possono cambiare.
Se poi aggiungiamo i continui tagli di risorse, oltre all’allungamento dell’età pensionabile, che aggiunge ad insegnanti che lavorano da quarant’anni nella scuola, altri due o tre anni per raggiungere l’età pensionabile, diventa evidente che i dati non possono essere diversi da quelli che ci propongono le statistiche pubblicate sul sito ministeriale “Scuola in chiaro”.
Sarebbe anche utile ricordare che gli insegnanti cosiddetti “anziani” sono e restano, in una scuola in difficoltà, una garanzia e una certezza, data dall’esperienza e dalla pratica didattica e metodologica, acquisita negli anni. Tutta la loro esperienza potrebbe servire a lasciare un’eredità alle “nuove” generazioni di insegnanti, ad aiutarli a mediare tra tradizione innovazione. Ciò che manca appunto è “il nuovo”, con il rischio di un patrimonio d’esperienza che non viene comunicato a chi resta o comincia a lavorare nella scuola. E questo dispiace davvero molto.
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