Mentre ascoltavo alcuni giorni fa la presentazione del bellissimo libro di Fabio Cani “La società della seta” (Nodo ed.) che descrive con dovizia e precisione di dati tutto ciò che costituiva la raggiera delle fabbriche tessili a Como fra Ottocento e Novecento, in senso sociale e culturale, ho ripensato a quanto era importante l’eredità dispersa di un mondo che ci siamo lasciati alle spalle. Un mondo intero, un modo di vivere scaturito dai centri industriali che hanno dato una fama al territorio lariano resistente al tramonto di tante realtà produttive: dalle case per gli operai agli asili e alle colonie marine per bambini e adolescenti, dai luoghi di cura e di assistenza alle scuole tecniche, dalle istituzioni dedicate allo sviluppo culturale alle associazioni di categoria imprenditoriali e sindacali, dai circoli ricreativi alle sedi di mostre, ai musei. Nel libro c’è tutto questo, con un corredo considerevole di fotografie spesso rare che mostrano, talora con una emozionante capacità evocativa superiore al testo, ambienti e persone di un ambiente di ieri difficilmente paragonabile all’oggi, per quanto ne restino ancora visibili tracce.
Si riconosce soprattutto, in questa ampia rievocazione storica, la capacità organizzativa e lo spirito che non si fatica a definire messianico di animatori della crescita, appunto sia economica che sociale, di tante persone partecipi di una collettiva volontà di farsi valere per un civile talento espansivo e per un’eccezionale creatività di lavoro lungo una articolata catena produttiva, con diverse specializzazioni di percorso. E con una sigla di comune identificazione corrispondente alla materia-base della produzione, la seta. Ho usato nel commento aggettivi qualificativi che mi parevano opportuni in riferimento alle caratteristiche di una vera e propria rivoluzione industriale: comune, collettiva, espansiva e via dicendo. Ritenevo infatti che fossero caratterizzanti di questo fenomeno, pur rispettando l’affermarsi della legittima individualità di ogni impresa e le ragioni della concorrenza. Ma qui mi fermo. Certi frammenti del passato che vorticano liberamente nel tempo mi hanno spinto a riflettere perché certe iniziative destinate globalmente ad una maggiore visibilità di tutto ciò che costituiva la qualifica d’insieme della cittadella industriale comasca siano decollate solo in parte e isolatamente.
A Como abbiamo acquisito due eccellenti realizzazioni, il Museo della Seta, che non a caso è stato il principale promoter della pubblicazione, e il Museo Studio del Tessuto che fa capo alla Fondazione Ratti. Il primo, grazie al coraggio e all’infinita pazienza di un gruppo di operatori del tessile, ha acquisito una preziosa storica collezione di strumenti, di apparecchiature, di macchine e un archivio di prodotti altrimenti condannati alla dispersione; il secondo, oltre a possedere il patrimonio che l’indimenticabile cavalier Antonio Ratti aveva conservato, organizza periodicamente raffinate esposizioni valorizzando l’opera di singoli protagonisti della storia tessile. Sono due organismi distinti, situati in due autonome sedi, destinati soprattutto a mantenere viva la memoria di ciò che è stato ed in parte comunque continua ad essere. Ma, anche lasciando da parte l’auspicabile migliore collocazione del Museo della Seta, di cui è carente soprattutto l’accesso e quindi la visitabilità, l’esposizione binaria è davvero sufficiente a giustificare l’appellativo nostalgico di “città della seta” che ancora fa capolino su qualche insegna, cartello, scritta rintracciabile in qualche angolo della città?
Qualcuno l’aveva sognato in una dimensione e con prerogative non proprio simili, fin dal 1925, novant’anni fa. Il qualcuno non era un anonimo Cetto La Qualunque ma un tycoon, un gigante della produzione e insieme un sensibile esteta, Guido Ravasi. Lui aveva immaginato che fosse possibile allestire un Museo Nazionale dell’Arte Tessile, un nome tutto in maiuscole in cui il termine “nazionale” stava per “comasco”, dato che il rivale lionese era stato da tempo superato e altri concorrenti non facevano paura; semmai suscitava allarme il fatto che troppi piccoli e medi produttori avessero preferito alla nobiltà costosa della seta altri filati più a buon mercato. Le autorità del regime gli diedero retta, il cav. Mussolini, tempestato di lettere e dopo un colloquio chiarificatore nel 1930, aderì alla proposta garantendo un finanziamento. Come sede degna di un organismo rappresentativo ed espositivo di tale importanza venne scelto, ed ottenuto, l’utilizzo di Villa Olmo, da pochi anni acquistata dal Comune dai Visconti di Modrone, dopo le manifestazioni voltiane del 1927. Quando pareva che fossero cadute le consuete barriere burocratiche, il progetto dovette essere abbandonato per la mancata intesa fra le principali aziende coinvolte nell’operazione museale, con relativi vantaggi pubblicitari. Ravasi nel suo libro di memorie accenna spregiativamente a “vanità e personalismi di ogni genere”, è chiaro che presunti interessi privati o forse gelosie imprenditoriali prevalsero sull’interesse comune. Nuovi tentativi di “far risorgere l’organizzazione del Museo vennero compiuti nel 1942, ma naufragarono per opera degli stessi…siluri”, ricorda Ravasi.
L’industriale non mirava ad una Villa Olmo imbalsamata da un’esposizione permanente di documenti e cimeli, ma alla sede prestigiosa di una produzione eccellente per valore intrinseco e splendore di materia. Una produzione ammirevole per il talento, la fantasia dei tessuti disegnati e realizzati dai telai. Voleva meravigliare, non informare. Da artista, intendeva offrire qualcosa che non avesse soltanto possibilità di lucrosi commerci, ma attributi di una vera e propria arte capace di suscitare ammirazione. Fallì nell’intento e nelle ultime righe del suo libro, “Sotto il faggio rosso di Cardina”, rivela con malinconica acredine l’empito della sua delusione. Ed ora, ripercorrendo le fasi di un’idea promettente, al di là della scelta di Villa Olmo certo discutibile e non più oggetto di alcuna proposta del genere, ci sembra di scorgere un’altra spiegazione della mancata adesione collettiva che avrebbe fatto sovrastare il nome di Como su quello dei singoli esponenti del settore tessile. L’ambizione era davvero molto alta, l’occasione propizia per soddisfarla. Avrebbe dovuto costituire il trionfo della seta come veicolo d’arte, questo è il motivo della riflessione che ha generato il recupero di una memoria così lontana. Così travolta da necessità, urgenze di un mondo che pare distratto e però sta recuperando tanti ideali che parevano morti e sepolti. Il principale, per quanto riguarda la seta e dintorni? Ce l’ha lasciato ancora Guido Ravasi: «Il tessuto non sorge soltanto da un incrocio di fili ma da un incrocio di pensieri». Quei pensieri ci sono ancora?
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