I dati forniti dall’Istat sul secondo trimestre 2013 sono preoccupanti e purtroppo confermano che la ripresa annunciata non si è ancora messa in moto.
Leggere che ci sono sei milioni di persone che, in modo diverso, «sono a disposizione» – in altre parole, non hanno oggi un lavoro – fa tremare i polsi, la mente e il cuore. Un numero che si ottiene sommando ai 3,07 milioni di disoccupati i 2,99 milioni di persone che non cercano, ma sono disponibili a lavorare (gli scoraggiati sono tra questi), oppure cercano lavoro ma non sono subito disponibili.
Sono dati scoraggianti sul piano economico e ci fanno riflettere sull’entità dei costi sociali, famigliari, sanitari e psicologici che mai sono computati dalle statistiche, ma che incidono sulla vita delle persone. Inoltre, la perdita di lavoro e la mancanza di accesso a un impiego generano una perdita molto significativa del capitale umano. Questo è meglio considerato pensando alla disoccupazione giovanile e alla loro emigrazione all’estero, che si configura come una perdita economica generale sulla base dell’investimento che la comunità nazionale e le famiglie hanno speso nella loro formazione. Per una persona che ha superato i 50 anni, la mancanza di lavoro rappresenta il precipitare in una condizione umanamente drammatica.
Questi dati confermano lo scenario molto preoccupante della situazione economica del nostro Paese, anche perché la crescita si può definire tale se crea posti e opportunità di lavoro. Nel presentare la legge di Stabilità il presidente del Consiglio Letta ha fatto intravedere un timido ottimismo per i prossimi mesi. Questo mini ottimismo può servire sul piano psicologico, ma non è però confermato dalla situazione reale. Nella lotta contro la disoccupazione, la buona volontà non è più sufficiente. Inoltre occorre sempre tenere presente, per non prendere e fornire abbagli, che la creazione di posti di lavoro non può essere decretata. La dinamica dei risultati sull’occupazione è sempre frutto di una complessa alchimia tra l’iniziativa pubblica, quella privata e la creatività sociale, ma abbisogna di fiducia nel futuro, di stabilità del contesto fiscale e normativo, ma anche di un certo grado di flessibilità nella gestione organizzativa e distributiva del tempo di lavoro.
Nessuna azienda è oggi in grado di garantire posti di lavoro per tutta la vita. E nel futuro il tasso di flessibilità è destinato ad aumentare anche per effetto della massiccia invasione delle nuove tecnologie. L’impressione che ricavo dal dibattito politico e sociale che è in corso è che non ci si voglia rendere conto che siamo arrivati a un punto di svolta del nostro modello produttivo. Continuare a pensare che basti incrementare i consumi per svoltare significa rimanere legati a una visione che ormai fa acqua da tutte le parti. I bisogni delle persone stanno cambiando anche perché la crisi ha fatto scoprire modo e stili di vita nuovi. Analizzando l’andamento dei consumi possiamo notare che si è determinata una nuova capacità di selezione e che lentamente e progressivamente si stanno abbandonando le dimensioni dello spreco cui la cosiddetta società dei consumi ci aveva abituato.
L’impressione che se ne ricava è che la dimensione della sobrietà stia, per necessità o per scelta, facendosi largo. Una dimensione più sobria ed essenziale che dia il giusto valore al denaro, all’ambiente, alle relazioni sociali e personali, può generare nuove forme di economia, di servizi alla persona e pertanto una cura diversa dell’abitare e del vivere i contesti urbani ed extraurbani e creare opportunità di nuovo lavoro.
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