Diceva un direttore di questo giornale (che a sua volta non faceva mistero di citare Vittorio Feltri) che l’unico modo per fare le cose è farle.
Chi scrive conserva memoria nitidissima di certi incontri preparati argomentando minuziosamente tutti i “contro” e i nessun “pro” che avrebbero reso senz’altro impossibile, nei tempi richiesti (in genere entro sera), la stesura del tal pezzo.
Pronto a battagliare per sostenere i suoi solidissimi argomenti, l’incerto cronista finiva dritto fuori dalla porta, sistematicamente respinto con un garbato sorriso e con la solita, laconica risposta: «Cosa vuole dire “come faccio?” L’unico modo per fare le cose è farle».
Fiacco di comprendonio, il nostro ebbe bisogno di sentirselo ripetere in più d’una occasione, fin quando, su per giù alla diciottesima, due cose accaddero. La prima: il sorriso non fu più garbato. La seconda: il messaggio passò.
Fu come una sorta di rivelazione. All’improvviso tutto apparve, nitidamente e renzianamente, alla portata, tutto realizzabile, tutto fin (quasi) semplice. «L’unico modo per fare le cose è farle».
Ora: la lunga premessa è funzionale al sostegno di una tesi che trova conforto e conferma nell’avvenuta apertura dello svincolo che, dall’altroieri, consente l’ampliamento dell’offerta della nuova tangenziale, dalla quale è ora possibile immettersi direttamente in autostrada in direzione di Chiasso e del confine di Stato. «Nulla di eclatante», per dirla con il sindaco Mario Lucini, se non che quella apertura è comunque il risultato di una battaglia lunghetta e non sempre facile che la città può, oggi, dire di avere vinto.
L’ha vinta Lucini, tra i primi - diamogliene atto - a spingere perché l’operazione, almeno questa, andasse in porto (in una città in cui pochi progetti marciano per il verso giusto), l’hanno vinta le categorie, l’hanno vinta i comaschi, e in parte, forse, anche il giornale che tenete tra le mani, la cui redazione ha creduto fin dall’inizio nella riuscita della piccola “impresa”.
La quale, al di là dei meriti dei singoli, dimostra come - a differenza di quel cronista - l’Italia intera ancora non abbia compreso a fondo la lezione, e di come, ancora oggi dopo settant’anni di storia repubblicana, la maggior parte di noi continui a porsi l’eterna, inascoltabile domanda: «Già, ma come faccio?».
In fondo così (non) vanno le cose. Non c’è nulla in questo Paese che non sia procrastinabile, nulla - si tratti dell’eliminazione di una tassa iniqua, o di un profugo da accogliere o rimandare a casa, o ancora di una legge da votare o da emendare - nulla di quanto si possa fare oggi che non sia fatto domani, salvo poi rivelarsi, ai posteri, che la massa delle buone scuse accampate era infondata, e che a mancare fu soltanto un po’ di buona volontà. È la banalissima politica del fare, che piace tanto al nostro presidente del consiglio, ma che in realtà - per quanto al nostro piaccia farne il paradigma della sua avventura politica - gli preesiste e gli sopravviverà. Perché gli ostacoli sono per definizione insormontabili ,ma nella maggior parte dei casi serve molta meno fatica di quanto si pensi.
Aiutano buona volontà e condivisione, aiuta soprattutto, come è stato nel caso “piccolo” della nostra tangenziale, la capacità di lavorare insieme e di fare “squadra”, per usare un’orripilante e abusatissima espressione che però rende l’idea. E soprattutto aiuta ricordarsi che non c’è un modo per fare le cose.
L’unico è farle.
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