La strage di Hanau, in Germania, presenta due elementi che ormai possiamo definire ricorrenti in questi anni tormentati da tutte le possibili declinazioni del terrorismo. Elementi che sono l’ideologia e la follia. Non v’è dubbio che Tobias Rathjen, che ha ucciso nove persone in tre locali frequentati da curdi prima di freddare la madre e suicidarsi, fosse uno squilibrato. Prima di colpire, l’assassino ha messo in rete un video pieno di farneticazioni su un complotto militare negli Usa con uccisione di bambini. E ha poi lasciato un “manifesto” in cui parla di razze superiori e invoca la distruzione dei Paesi a maggioranza musulmana di Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. Un tipo così, peraltro, disponeva di un porto d’armi e di una pistola regolarmente registrata. Il che dimostra che non c’è alcuna rete sovversiva alle sue spalle. E che le nostre società patiranno sempre di quegli “eccessi” di libertà che sono inevitabili se vogliamo continuare a definirle democratiche e liberali.
Ma poi c’è l’ideologia. Che è insensata, delirante, ma c’è. Ed è la versione estrema e, appunto, folle di tanti discorsi che circolano sui social media o che magari si sentono fare sugli autobus o nei bar. Anche Anders Breivik, l’estremista di destra che nel 2011 uccise 77 persone a Utoya, in Norvegia, aveva un’ideologia, che era la versione da incubo, drogata dalla follia, di discorsi che invece si sentono fare in pubblico. E altrettanto si potrebbe dire per i quattro giovani che nel 2005, a Londra, fecero saltare tre vagoni della metropolitana e un autobus, uccidendo 56 persone, in nome dell’ideologia politico-religiosa del qaedismo.
Quello che si vuol dire, insomma, è questo: è più che arrivata l’ora in cui il discorso pubblico, a partire ovviamente dalla politica, deve prendere atto dell’era in cui viviamo dal punto di vista della comunicazione. Parlare, esporsi, teorizzare, manifestare un’opinione, diffondere una credenza o anche una falsa notizia, non è più faccenda per pochi ma abitudine di tutti. E con una profondità che fino a vent’anni fa era inimmaginabile. Questo articolo, domattina, potrebbe essere letto anche in Australia, se a qualcuno interessasse.
Sembra paradossale ma è una condizione che agevola i folli malamente ideologizzati, li aiuta a confondersi nella folla. Quasi tutti gli stragisti si espongono prima di uccidere ma nessuno di loro viene intercettato prima del delitto. Il video razzista di Rathjen è passato inosservato persino in una Germania che negli ultimi anni si è molto preoccupata dell’avanzata dell’ultra destra. In un Paese dove i servizi segreti da tempo seguono i gruppi razzisti o neonazisti. In un sistema politico in cui Angela Merkel, pochi giorni fa, non ha esitato a terremotare il proprio partito pur di ottenere le dimissioni del governatore della Turingia, eletto alla carica anche con i voti dell’Afd, il più influente partito della destra radicale.
Non si tratta dello hate speech, il discorso d’odio che tracima dalla Rete e che dev’essere ovviamente contrastato. Quello è un fenomeno sgradevole e insidioso ma molto meno pericoloso del degrado che si realizza di continuo, passo dopo passo, sulle nuove reti della comunicazione, di idee e ideologie che possiamo e magari respingere ma che di per sé non prevedono alcun crimine. La democrazia vive del contrasto delle idee. Senza quello che cosa resta? Ma tocca agli uomini e alle donne della politica, oggi più che mai attivi in quelle reti e capaci di influenzarne gli umori anche attraverso specifici apparati, mostrare coscienza del pericolo e la necessaria maturità nel disinnescarne la miccia. A loro per primi. Ma subito dopo a noi. Alla fine del Cinquecento, il poeta inglese John Donne scrisse questi versi memorabili: “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Oggi sappiamo quanto aveva ragione.
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