Chiamiamola con il suo nome. Svolta epocale.Il Como, come avevamo anticipato ieri, è stato acquistato dalla moglie del giocatore britannico-ghanese Essien. La prima presidentessa donna del Calcio Como. La prima presidentessa di colore della storia del calcio italiano. La prima proprietà straniera della società azzurra. Basta per definirlo capitolo nuovo?
La prima riflessione che viene in mente, è che l’arrivo della signora Akosua Puni (il suo nome ghanese) è la più logica soluzione per una situazione che sembrava senza sbocchi. Una soluzione che fotografa lo stato dell’arte. Dopo aver provato con la proprietà dell’imprenditore forte che puntava a vincere (Preziosi), e dopo aver provato con il pool di imprenditori locali (Porro): cioè le due ultime due tipologie di società, sideralmente distanti tra loro, addirittura in contrapposizione ideologica, per fini e modelli, le ultime due società capaci di portare il Como nel calcio che conta, finite nella stessa identica maniera: con un fallimento.
Due esiti così devastanti da far sorgere il sospetto che a Como, «piazza ideale per fare calcio» così come la definiscono a volte gli esperti (che non sono mai stati qui), in realtà giocare a pallone sia difficilissimo. Attorno, davanti e dietro agli esiti deludenti delle ultime tre volte che abbiamo alzato la testa (ci mettiamo anche la promozione di quel bravuomo di Beretta), trentanni vissuti tra serie C e fallimenti, contestazioni a società dalla breve gittata. Con la dimensione di “Como da serie B” ormai sbiadita, caro ma ingiallito ricordo. E, tanto per gradire, un’asta fallimentare che ha visto 31 soggetti alternarsi davanti al curatore. Processione che si è portata dietro due sentenze: 1. Tra gli interessati non c’era nessuno davvero competitivo e solido da poter presentare una busta da 300mila euro; 2. Nessuno di questi era di Como, tanto per ricordare che (specie dopo la fallimentare conclusione della società comasca di Porro), non era proprio più il caso di immaginare soluzioni imprenditoriali locali.
Dunque? Dunque, tolto il grosso imprenditore, tolta la società comasca, tolta probabilmente anche l’eventualità di un progetto basato sui giovani e su anni di pazienza (adatto a piazze senza pretese come Sassuolo o Chiavari, non a tifoserie dell’area depressa esigente e livorosa all’ombra di Milano, come anche Lecco e Varese), cosa restava per ridare speranza al sogno di un Como più grande? Ma certo: la proprietà straniera. L’abbiamo detto più volte: la possibilità che il brand Como potesse esercitare un certo fascino, la motivazione per sbarcare qui e farci qualcosa di interessante.
Sarà così? Vedremo. Dobbiamo capire cose fondamentali della signora Puni, tipo: perché Como? Perché il calcio? E con che budget? C’entrerà il marito? C’è un’idea accessoria o parallela di business legata a fondazioni benefiche o alla moda? Intanto però Como ha trovato una ipotetica soluzione. Perché dopo trentanni di serie C, nel faticare ogni anno a mettere insieme il pranzo con la cena, c’eravamo stufati di aspettare Babbo Natale. È una chance da sfruttare. La signora, culturalmente impegnata, con sani valori, dedicata alla lotta all’ebola e all’aiuto per bambini bisognosi, pare avere i tratti della persona affidabile. Potrebbe fare la storia del Como. Se tutto sarà confermato. Se tutto partirà nel modo giusto. Se non ci saranno intoppi. Intanto registriamo la curiosa contemporaneità delle due squadre più importanti del nostro territorio, Como e Cantù, guidate da due donne straniere. Spesso sugli stranieri sentiamo la frase: «Aiutiamoli a casa loro». Bene, tutto è relativo. Nello sport lariano, ebbene sì, sono venuti ad aiutarci a casa nostra.
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