L’immortale “Azzurro” di Paolo Conte, lanciata da Adriano Celentano dice che “il treno dei desideri all’incontrario va” e fotografa il momento della compagnia di giro gialloverde.
Grazie al “torello” del governo su un argomento che vanta più aculei di una nidiata di porcospini, la nostra conoscenza della Tav è ridotta a quella del Fantozzi storico, legionario greco che reduce dalla battaglia di Maratona non ricordava più se aveva vinto, perso o pareggiato. Ecco sul treno, per ora solo ad alta loquacità dei politici, il problema forse è proprio questo: che non si trova il modo di pareggiare.
Magari proprio perché la questione è diventata una battaglia sia pure solo politica tra Lega e Cinque Stelle.
I primi con il fiato del Nord sul collo per le infrastrutture non possono mollare. I secondi, dopo aver dovuto digerire l’assoluzione di Salvini sul caso Diciotti e la legge per la legittima difesa, potrebbero aver terminato le scorte di quel Maalox che, ironia della sorte, consigliavano agli avversari rosicanti di fronte ai loro ostentati successi. Per tentare di convincerci che non s’ha da fare questo matrimonio fra Torino e Lione, che poi è qualcosa di più, ci hanno riempito la testa e le orecchie di relazioni, rapporti costi-benefici, studi più o meno taroccati. L’unica certezza è che fermare in corsa sia pure lenta la Tav implica perdita di quattrini, posti di lavoro e indotto. E molti dalle nostre parti su al Nord, magari con l’eccezione comprensibile dei residenti della Val di Susa farebbero fatica a decrittare le ragioni di un no nonostante la dovizia di documentazione. E poi c’è un’altra insidia nascosta tra le traversine del treno ultra veloce. Se dovesse imporsi la linea pentastellata sulla Torino-Lione chi ci garantisce sul futuro delle altre infrastrutture progettate o cantierabili che i nostri territori stanno attendendo? La Tav, insomma, rischia di diventare la madre di tutte le battaglie del Nord. Se la Lega, per evitare una crisi di governo, dovesse far cadere la bandiera, c’è da essere certi che vi saranno altre forze politiche pronte a raccogliere. Non a caso Nicola Zingaretti, subito dopo aver indossato la livrea di segretario del Pd, si è affrettato a varcare il Po per gridare a Torino il suo appassionato “sì Tav”.
La partita è tosta e complessa. Ingoiare questo rospo per i Cinque Stelle vorrebbe dire un ulteriore travaso di sangue elettorale non compensato dall’avvio del reddito di cittadinanza. E con ogni probabilità, ammesso che questa sia una iattura, il ministro Danilo Toninelli dovrebbe lasciare la poltrona il che provocherebbe ulteriori scosse sismiche in un Movimento già abbastanza tellurico.
Lo scenario immediato è quello di tentare il rinvio, la vecchia pratica democristiana per evitare di affrontare le questioni divisive. Ma non si potrà tirare in là fino al fatale 26 maggio, data delle elezioni europee e crinale per la politica italiana del prossimo futuro. Altrimenti se Salvini terrà il punto, e non si vede come potrebbe fare altrimenti, e imporrà ai ministri della Lega di non avallare il blocco dei bandi sulla Tav, sarà inevitabile il big bang di una crisi di governo più mai al buio che potrebbe sfociare in nuove elezioni, peraltro più che deleterie visto il quadro economico italiano e non solo.
Singolare, ma solo ormai come nota di folklore, come sia sparito dalla scena quello che, soprattutto in questi punti di crisi, dovrebbe essere il primo attore: il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che dopo aver detto che l’opera non sarebbe da farsi, senza peraltro adottare comportamenti conseguenti, è stato rimandato al “trucco” in attesa di riapparire sul palcoscenico quando e se i toni drammatici torneranno a scolorare in quelli del varietà che sembra essere questo rissoso, incredibile anche se magari non carissimo, governo.
@angelini_f
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