Non poteva che finire con la querelle sl voto del senatore “carneade”, Ciampolillo a cui non è stato negato il quarto d’ora di celebrità, come capitò, ai tempi di un governo Prodi, a Turigliatto.
Quando Mina cantava “E se domani io non potessi rivedere te”, non pensava certo a un immaginifico dialogo tra un parlamentare e la sua poltrona. Eppure il celebre motivo, riveduto in questa chiave, è stata la colonna sonora della crisi che ci ha portato dal Conte II che già, specie negli ultimi tempi, non era un gran che, a terzo esecutivo presieduto dall’avvocato del popolo nella legislatura. Una compagine che ancora deve prendere forma ma già rischia di diventare come Fantozzi a Capri con la signorina Silvani in Calboni, il cui consorte, come il governo Conte II, era quello che era ma a quest’ora aveva già approvato una decina di Dpcm.
Perché il governo nato dalle macerie che hanno sepolto anche chi le ha provocate, cioè Matteo Renzi, si appoggerà a una maggioranza debole dal punto di vista politico e talmente instabile che rischia di far avverare la profezia del “toscano maledetto”, nonché sua unica speranza residua, per cui tra due mesi saremo ancora da capo e la sua Italia viva sempre più per miracolo riprenderà un po’ di colore su un viso oggi esangue.
Chiaro che nella situazione che si è creata e, soprattutto, con i rapporti di forza in Parlamento che non rappresentato più quelli del Paese, la fine anticipata della legislatura e le urne sarebbero state la situazione più dignitosa. Ma anche quella meno praticabile per le note ragioni legate al soccorso europeo e alla partita per la successione di Mattarella. Del resto, se vi fosse stata una minima possibilità di tornare in cabina, Renzi se ne sarebbe stato buono. Il voto per lui e suoi rappresenterebbe il rischio estinzione. Altri gruppi alla Camera e Senato, in testa i Cinque Stelle, sarebbero pesantemente ridimensionati. Già, i post grillni: l’epilogo di questa crisi coincide anche con la fine della loro rivoluzione più che mai meteora. Dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, alla fine hanno accettato di dividerla con figuri che prima non degnavano neppure di uno sguardo schifato come quei “responsabili”, “costruttori”, “voltagabbana”, “scilipotisti”, “salvatori della Patria” che diventeranno un pilastro della nuova maggioranza. Beppe Grillo che chiamava le folle in piazza con epiteti come slogan, ha lanciato l’altro giorno un appello in politichese degno di Aldo Moro. Persino “Che Guevara” Dibba pare stia meditando sul confort di uno strapuntino, mente Giggino Di Maio è sempre più a suo agio nel ruolo di sughero sempre a galla. Come sempre, ma in questo caso con tempi molto brevi, Roma riesce a fare quello che subì dalla Grecia quando fu conquistata.
Se davvero l’impegno della nuova maggioranza sarà anche quello di rivedere la legge elettorale per adottare il proporzionale puro, avremo una Terza repubblica caricatura della Prima, con le maggioranze che nascono e muoiono in Parlamento e una governabilità ancora più precaria perché privata dall’ancoraggio delle ideologie e dall’appartenenza politica che, in pratica, faceva le veci del vincolo di mandato e impediva, salvo casi clamorosi, cambi di casacca divenuti poi incontrollabili con la dissoluzione dei grandi partiti di massa.
In questo contesto, Giuseppe Conte sembra avere lo physique du role per tentare l’ennesima riedizione di un partito di centro più o meno simile a quella Dc impossibile da riportare in vita. Non a caso è stato proprio il premier a buttare l’esca del proporzionale, anche se quella della legge elettorale non è materia di competenza del governo, bensì delle Camere. Di certo non pochi abboccheranno.
L’impressione è quella che, sia pure in modo del tutto casuale, si chiuda un ciclo forse mai neppure troppo realizzato. Perché anche nel centrodestra, l’eventuale approdo al proporzionale consentirà a Forza Italia di rimarcare ancora di più le distanze dal sovranismo spinto e forse in fase calante, degli alleati di Lega e Fratelli d’Italia e favorire la nascita di nuove aggregazioni politiche sempre nel nome di quell’europeismo che, in questa fase di grave emergenza economica, appare una minestra da mandar giù anche se non se ne gradisce il sapore. C’è poi da sperare che, una volta terminati i giochi di Palazzo, qualcuno si ricordi che fuori c’è sempre una pandemia da combattere.
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