Edlira Copa, la mamma che domenica 9 marzo ha ucciso le tre figlie nella sua abitazione del quartiere lecchese di Chiuso, è stata giudicata incapace di intendere e volere. Un verdetto che non sorprende, vista l’enormità della tragedia, ma che riapre una ferita impossibile da rimarginare.
Ritornano alla memoria i giorni febbrili di quell’inizio di marzo, che gettarono la città in uno scoramento pari al senso d’impotenza che si percepiva negli occhi dei tanti che resero omaggio alle tre bare raccolte alla Casa sul Pozzo. La tentazione generale di trovare un motivo, un perché a quel dramma, s’infrangeva contro l’impossibilità di scovare anche solo uno straccio di giustificazione ad un triplice omicidio tanto efferato. Furono, quelli, anche i giorni di una condivisione totale da parte della città lariana, che, superando gli steccati di culture e fedi, seppe stringersi con grande affetto a Baskim Dobruschi, il papà di Simona, Sidny e Keisi, ed alle due famiglie distrutte dal dramma. Due famiglie che hanno saputo rimanere unite nonostante la violenza assurda che le aveva travolte.
La perizia dello psichiatra Federico Durbano, che ha giudicato Edlira Copa “totalmente incapace di intendere e volere”, vanno a coincidere con quanto ci aveva detto, a caldo, in quei giorni, la professoressa Isabella Betsos Merzagora, criminologa specializzata nelle “stragi familiari”, che hanno come protagoniste le madri: «Nella mia esperienza trentennale non ho mai trovato persone colpevoli di stragi familiari che non fossero vittime di una patologia depressiva o di una più grave malattia mentale. E’ difficile non ci sia relazione tra i due fatti; non ho mai trovato madri omicide che non fossero affette da malattie mentali o comunque da patologie depressive».
Tutto questo si riverbererà ovviamente sull’esito del processo, visto che, stante la perizia, la madre di Chiuso non è punibile, ma in fondo questo è l’ultimo degli aspetti di quella tragedia che ci interessa. Non sappiamo se in questi mesi Edlira Copa sia stata avvicinata da qualcuno della famiglia; non possiamo sapere quale sia stato il suo comportamento, se si sia manifestato, per esempio, un rigurgito di consapevolezza, un accenno anche minimo di pentimento; quello che resta più nitido e forte è la disperazione di quelle due famiglie e l’isolamento di una donna che ha distrutto gli affetti più cari e se stessa.
Ci piace, invece, ricordare quel ciliegio che il 9 giugno è stato collocato alla Casa sul Pozzo a ricordo di Simona, Sidny e Keisi. Lo hanno piantato il papà Baskim ed un fratello della mamma Edilra, insieme a tanti bambini, al prefetto, al sindaco ed al parroco di Chiuso.
Una cerimonia semplice ma di grande intensità a cui partecipò tantissima gente, a dimostrazione di come l’intera città avesse adottato quelle tre bambine ed i loro cari. «Questo incontro – disse in quell’occasione padre Angelo Cupini – tre mesi fa non era in programma. Ma la vita a volte ci chiede anche quello che non vorremmo e questa sera siamo qui a ricordare un dolore che non è svanito. I giorni duri continuano, ma c’è la speranza che il futuro riduca il male e ci permetta di stare uniti in questo cammino. Il ciliegio che questa sera piantiamo è il segno della forza della vita».
Quella pianta di ciliegio è lì a ricordarci quanto possa fare il male ma anche che al male si può reagire. Resta poi il dramma di una madre che uccidendo le sue tre figlie si è persa per sempre dentro le nebbie di una tragica follia senza vie d’uscita.
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