Diceva Philip Marlowe, nella sua infinita saggezza resa indiscutibile da una calibro 38, che i guai erano il suo mestiere. Potrebbe replicare un giornalista, molto più sommessamente, che il suo mestiere è invece il presente. Qualche volta - ma deve starci molto attento - perfino il futuro. Per definizione i giornali si occupano di ciò che è appena accaduto. I giornali stampati di quello che è accaduto ieri, quelli digitali di ciò che accade oggi. Con le dirette streaming è diventato facile, portatile si direbbe, occuparsi addirittura di ciò che succede proprio mentre succede.
Tutto ciò sembra costruito sulla convinzione che il presente e soltanto il presente è ciò che occupa le nostre menti, i nostri interessi e i nostri cuori. Non è così: sotto il presente, come sotto all’impalpabile superficie del mare, affonda fino al buio la profondità del passato. I giornalisti pensano che sia materia per storici: se ne occupino loro, sommozzatori della cronaca, palombari dei giorni sommersi. Il problema è che costoro, quando si immergono, tendono a riportare a galla solo frammenti della storia che si definisce “grande”: una battaglia di Napoleone, una frase di Giulio Cesare, una mezza lettera di Churchill. La pesca d’altura della storiografia, insomma.
Il passato è però un mare molto più grande, tanto che ognuno di noi deve portarne un po’ perché, nei libri, mai ci starebbe tutto. Scoprire quanto sia grande e quanto sia ancora vivo è una sorpresa che lascia a bocca aperta. A noi capita di viverla in questi giorni, da quando abbiamo invitato i lettori ad aprire gli album di famiglia per inviarci le fotografie scattate davanti alla celebre ringhiera dei timoni sul lungolago di Como.
La ringhiera, si sa, è sparita travolta dall’infelice cantiere delle paratie. La promessa del Comune è di rimetterla al suo posto una volta che i lavori saranno - chissà quando - completati. Per il momento, però, è soltanto un ricordo: un ricordo seppiato, in bianco e nero, qualche volta non troppo a fuoco, magari acceso nei pastosi colori primari delle pellicole fotografiche anni Sessanta. Eppure il numero delle immagini arrivate in redazione (a proposito: basta mandarle all’indirizzo [email protected]) non lascia dubbi: il passato esiste, vive tra noi, e non aspetta altro che scappare dal cassetto per tornare a far mostra di sé.
Nella corsa dei comaschi all’album di famiglia c’è qualcosa di commovente: la pioggia di foto testimonia della nostalgia per cari che non ci sono più - ritratti nei giorni di festa con i vestiti buoni, gli abiti leggeri per l’estate, le trecce passate di moda, le scarpe col tacco ricoperto e la sigaretta all’angolo della bocca - ma anche della città che (per ora) manca alla vista: il lungolago di sempre, la pace dei giorni lontani, il benessere appena conquistato.
Un successo che continua – e di sicuro continuerà nei prossimi giorni – in grado di rivelare molto. A noi giornalisti che, inseguendo sempre e solo il nuovo e l’inedito, dimentichiamo di quanta importanza abbia, per chi legge, il vissuto, l’esperienza, il ricordo. Agli amministratori suggerisce invece che qualche volta sono troppo disinvolti nel giocare con le pietre care alla gente, alla quale si può consegnare e forse perfino imporre il cambiamento a patto che non sia a discapito della tradizione, dell’identità, della memoria. La ringhiera risorge nelle foto spinta dal ricordo e dall’amore per la città: non potrà abbatterla un progetto, un cantiere e neppure una politica (e un giornalismo) incapaci di uscire dalla dimissione del presente. Essa assomiglia al futuro di Como più di tutti i freddi “rendering” del mondo.
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