La vita precaria
dei poveri Comuni

Nessuno li considera per quel che valgono, non godono di uno straccio di solidarietà e non sanno più che pesci pigliare perché strapazzati dal governo. S’avanza così una nuova figura “lavorativa”, priva di qualsiasi conforto: il precariato comunale, i cui titolari sono sindaci e amministratori.

Il cittadino-contribuente ha buone ragioni per arrendersi dinanzi alla giunga lessicale e normativa delle tasse locali, ma provate a mettervi nei panni del primo livello amministrativo che sta sopra le nostre teste: chi fa che cosa e con quali risorse. Risultato: non lo possono sapere con precisione (e qui la precisione non è un dettaglio) neppure loro, le prime vittime della semplificazione che non necessariamente fa rima con semplicità. Un ruolo, quello dei sindaci, non più a somma zero, ma sostanzialmente perdente sul piano del consenso: da un lato devono mostrare il volto arcigno degli esattori di prima istanza e dall’altro restano al verde in quanto ufficiali pagatori nei confronti dello Stato. Un giro dell’oca, consumato secondo la logica della partita di giro, con una mano ti dò e con l’altra ti tolgo, e in cui si torna alla casella di partenza: a rimetterci, con il contribuente, è la prossimità amministrativa, la più vicina ai cittadini perché la più riconoscibile e schiaffeggiabile. Chiuso un ciclo, quello dello sbandierato federalismo fiscale del 2009 peraltro mai iniziato, perché invece che devolvere alle autonomie s’è accentrato a Roma, se ne sta aprendo un altro: l’incertezza e la confusione, nel quadro dello schema perverso di flessibilità e rigidità, come tratti distintivi della democrazia territoriale. Con un retrogusto amaro: l’allegra brigata dei Fiorito prima e la palude malavitosa romana di questi giorni poi hanno prodotto, e producono, danni irreparabili alla credibilità delle istituzioni del territorio già colpite in modo indiscriminato dall’offensiva anti casta e sfiancate dallo stress della spending review.

In questo andazzo si rischia la faccia a difendere le buone ragioni di Comuni e Province, almeno di quelli virtuosi, e non sono pochi. Il quadro, quanto a costi, è chiaro. I Comuni hanno già dato: il risanamento dei conti pubblici è stato finanziato dal 2007 ad oggi con 16 miliardi di cura dimagrante. I trasferimenti da Roma scendono, mentre crescono i bisogni in parallelo con la Grande Crisi. Ora c’è un allentamento del Patto di stabilità, ma fino ad oggi i vincoli hanno impedito la programmazione degli investimenti e gli stessi tagli lineari non distinguono fra meritevoli e immeritevoli. L’aumento delle imposte ha compensato solo in parte la sforbiciata dei vari governi. La riduzione dei fondi per le politiche sociali già incide sulla carne viva delle comunità. La casa è un quiz surreale. L’Ici è stata uccisa appena uscita dalla culla ed è rinata più in forma di prima, pur sotto mentite spoglie. La Tasi s’è rivelata un’imposizione regressiva, perché sfavorisce i piccoli proprietari.

In sintesi: dal governo Monti in poi l’instabilità normativa, trainata dai repentini cambiamenti, guida i nuovi rapporti fra centro e periferia bersagliando gli enti intermedi, la società di mezzo fra cittadino e Stato centrale, cioè le agenzie che costruiscono senso di comunità e coesione sociale. La legittimità del fisco sta nella formula “vedo, pago,voto”: ma ci sono gli strumenti per “vedere” e capire?

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