Nella sequenza chiave di “C’eravamo tanto amati”, il film capolavoro che come nessun altro ha raccontato il tradimento delle speranze, dei sogni, delle utopie figlie della gioventù e della lotta partigiana, Gianni Perego (Vittorio Gassman) gela gli amici Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) proprio nel bel mezzo di una rimpatriata sui bei tempi andati: “Il futuro è passato. E non ce ne siamo nemmeno accorti”.
Nessuno, neanche “Il Sorpasso”, che pure racconta l’“assassinio” dell’Italia ingenua e perbene da parte di quella affarista e cialtrona, ha toccato in modo così profondo le corde dell’amarezza, del rimpianto, della perdita come Ettore Scola nella più perfetta delle sue opere. Un film magistrale. Un classico. Una metafora dell’esistenza, di ogni esistenza, perlomeno dal secolo breve in poi, nella quale la giovinezza è sempre segnata dalla ribellione contro i genitori, la famiglia, i potenti, insomma, “i vecchi” ed è regolarmente ammantata da cortei scarmigliati, occupazioni di scuole, manifestazioni di piazza. Sono riti di passaggio, strappi esistenziali durante i quali ogni adolescente, ogni ragazzo in fiore cerca di sentirsi parte di qualcosa di più grande, trascinato da un’onda più lunga, sospinto da un vento della storia che spira benigno alle sue spalle, membro di un grande afflato generazionale che cerca il suo spazio e allarga il proprio apparato radicale dentro il terreno di chi veniva prima di lui. La ruota gira.
In fondo, il motivo della ribellione è addirittura secondario. Il potere delle multinazionali? Le contraddizioni del sistema capitalistico? La guerra in Vietnam? La fame nel mondo? L’inquinamento dei mari? Non è importante. Quello che conta è esserci, sentirsi parte fondativa di qualcosa di nuovo e unificante. È sempre andata così, perlomeno dal dopoguerra in poi. E così, ci potete scommettere, andrà anche stavolta con il fenomeno Greta, che ha assunto dimensioni oggettivamente così planetarie che sarebbe scorretto minimizzarlo. Ora, è fin troppo facile ironizzare sulle ingenuità, le superficialità e la demagogia che allignano in molte delle tesi del movimento green, che se pensa di risolvere i problemi devastanti creati da un modello di sviluppo come il nostro, soprattutto ora che si è esteso a giganti come la Cina e l’India, con l’uso delle borraccette al posto delle bottigliette, è meglio che lasci subito perdere. Ma sono ragazzi, è ovvio che vivano un momento esistenziale nel quale l’iperbole è la regola. Insomma, devono comportarsi da ragionieri già a sedici anni? E poi, se loro fanno ridere, quelli che fanno piangere sono gli adulti, noi adulti, soprattutto gli adulti di potere che adesso che è di moda straparlano di nuova economia, nuova ecologia, produttività sostenibile e circolare dopo aver fatto e strafatto per decenni carne di porco di qualsiasi ragionamento su limiti all’inquinamento e rispetto dell’ambiente.
Ma la cosa interessante non è neppure questa. L’aspetto psicologicamente più toccante è vedere come il cerchio della storia e della vita si chiuda sempre. Cambiano le stagioni e le generazioni, ma le dinamiche dell’agire umano restano sempre le stesse. E così, tra i critici più spietati e impietosi e demolitori del movimento di Greta spuntano proprio quelli che quarant’anni fa invadevano le piazze per ululare contro i gringos golpisti, auspicare il cloro al clero, benedire il sei politico e inneggiare alla ineluttabilità della rivoluzione proletaria delle Brigate Rosse, che forse è peggio di protestare contro il riscaldamento del pianeta e di certo ha fatto molti più danni. Eccoci al punto. Passato il tempo, rivelatisi deludenti ed effimeri gli esiti - sempre e tutti -, confermatasi l’inanità dei buoni proponimenti, delle idee platoniche, dei mondi perfetti ed ideali, alla fine restano solo i rancori, i livori, i neri umori, le nostalgie canaglie di quegli anni formidabili che nessuno ha mai vissuto prima di te e nessuno potrà mai vivere dopo. Perché quelli sono i tuoi anni. E quindi i liderini di oggi non potranno mai essere quelli dei tuoi tempi, né le fidanzatine dei liderini, né gli slogan e i vestiti e le chiome e le colonne sonore, perché lo smartphone avrà anche permesso di mettere in connessione mondiale simultanea milioni di teenager, ma vuoi mettere la poesia del ciclostile, la sacralità del tazebao?
È questo riflesso pavloviano, questo birignao velenoso il rischio più grave nel valutare i giovani manifestanti di oggi, cioè il giudicarli non per quello che dicono e fanno e propagandano, ma per quello che sono. È quello il dramma. Sono loro il vero problema. Loro sono quello che noi eravamo una volta, con tutto quel concentrato ingestibile di velleità, entusiasmi, contraddizioni, pasquinate che, diciamoci la verità, ci risulta - proprio come al partigiano Gianni vendutosi al sistema - del tutto insopportabile. Da qui quel sentore di stantio, quel tanfo di acredine, quell’ira repressa a fatica che spurga da tanti commenti e da tanti commentatori e che ci porta lontano da una visione laica ed equilibrata di quello che sta accadendo da mesi.
Anche chi - come chi scrive questo pezzo - ha sempre considerato la piazza il luogo principe della demagogia e della massificazione, la grande truffa per annichilire l’individuo e ridurlo a gregge belante ammaestrato dal primo demagogo da strapazzo e che quindi si è sempre tenuto alla larga dal movimentismo giovanile, si dimostrerebbe sciocco se liquidasse tutto questo con un’alzata di sopracciglio. Non sarebbe giusto. Sono appena stati gettati nella mischia. Non soffochiamo il loro entusiasmo nella culla. Avranno tutto il tempo per sperimentare, per sbagliare, per capire. Per rassegnarsi. Anche a loro, un giorno, toccherà vedere degli adolescenti scamiciati che si prendono la scena, dichiarano guerra al mondo e, infine, li mandano in pensione. Ecco, in quel momento sarà importante che gli schiaffi della vita abbiano reso gli ex giovani molto saggi.
@DiegoMinonzio
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