Parole, parole, fiumi di parole, parla che ti passa. Scegliete voi. L’ennesimo assurdo quanto terribile episodio di violenza legato a una partita di pallone è destinato ad affondare come i precedenti nei proclami verbosi, nei bla bla pronunciati con il cipiglio di chi si prende sul serio, conscio di aver fatto il proprio dovere a colpi di sermoni con la schiena dritta, nei severi moniti e negli annunciati provvedimenti tanto draconiani quanto inattuabili. Parole sul marciume di un sistema, di uno sport e di un contesto sociale che va alla deriva.
Perché si può dire una buona volta che queste essenze velenose che proliferavano vicino al verde dei campi, innaffiate e concimate dalle società con la stessa cura dedita a un vaso di gerani sul balcone, dovrebbero essere estirpate a colpi di diserbante? Basterebbe fare una riflessione di una semplicità disarmante: è possibile che un contesto gioco come quello dello sport se non più bello, più popolare del mondo, possa prevedere la morte come conseguenza dell’assistere a un partita? Certo, noi ormai ci abbiamo fatto il callo. Quanta sociologia è stata spalmata per capire, decifrare, giustificare, lenire il mondo degli ultras, quello che emerge e quello che sta sotto che tutti conoscono ma fanno finta di ignorare. Chi tifa con passione bene, per gli altri il codice penale, senza distinguo.
Eppure di tanto in tanto ci ricapita il morto, oppure l’accoltellato, il bastonato, quello preso a botte magari solo per il colore della sciarpa.
La verità, terribile, è che l’abbiamo metabolizzato, lo si considera un incidente di percorso come quelli che possono capitare a tutti sulla strada della vita. Esaurito il coté di indignazione e di annunci, the show must go on. Come prima e peggio di prima. Il business non può fermarsi. Anche lo facesse, comunque prima o poi ripartirebbe.E il pallone e un business sempre più ricco, forse.
Ecco perché la macchina infernale non perderà mai i colpi. Anche se un giorno, una pulsione utopistica potrebbe spingere qualcuno a dire basta: porto a casa il pallone e vi lascio qui la borsa. Ma non succederà e anche se accadesse non servirà.
Si dice che lo stadio è una proiezione della società e perciò queste cose vanno messe in conto. Niente di più sbagliato. Il campo da gioco deve essere zona franca, com’è appunto il gioco per i bambini. Sarebbe ora che diventasse tale anche quando gli attori sono cresciutelli.
Altrimenti la violenza resterà normalità, com’è nella vita di tutti giorni. Va bene, avanti così. Ma non si pensi di debellare nulla. Secondo voi sono i più i tifosi nerazzurri (ma il ragionamento vale per qualunque altra tifoseria) che stanno riflettendo su quanto accaduto domenica o coloro che si sentono ingiustamente penalizzati dai due turni a porte chiuse inflitti all’Inter?
Il razzismo è sempre più montante sugli spalti, proprio perché sta crescendo anche nella nostra società. Oppure facciamo finta che non sia vero, che non vi sia un humus culturale, certo determinato anche dal contesto, dall’epoca in cui viviamo, con cui il fenomeno si corrobora? Per carità se al primo “booh” di un imbecille l’arbitro mandasse le squadre negli spogliatoi o una delle due togliesse le maglie, forse il fenomeno si ridimensionerebbe. Ma per opportunismo non per la convinzione di aver compiuto un colossale e doloso affronto.
La coercizione, lo abbiamo visto, può aiutare ma non risolve. Il problema, nelle curve come nella società, finché continueranno le une a essere specchio dell’altra, è culturale. Perciò richiede tempo, pazienza, preparazione e soggetti all’altezza. Nel calcio e non solo. Non cambierà nulla, compreso l’assurdo sollievo per essere andati a vedere una banale partita di pallone che banale non è quasi mai, e aver portato a casa la pelle.
@angelini_f
© RIPRODUZIONE RISERVATA