Ogni tanto salta fuori un bel tipo a dire al mondo chi si può intervistare e chi no. Chi ha diritto di cittadinanza nell’aureo agorà dell’informazione globale e chi invece è condannato per sempre all’oblio, all’irrilevanza, al mutismo, alla censura. Ovviamente è una stupidaggine, perché nessuno ha l’autorità per ordinare a un altro con chi deve parlare, perché chiunque è portatore di una visione del mondo che vale la pena di conoscere e, soprattutto, perché nessuno detiene la sapienza assoluta, monolitica, divina per dividere il grano dal loglio.
Ma il vizietto riemerge. L’ultimo caso è proprio di questi giorni, con le violente polemiche legate alle interviste su giornali e tivù ad alcuni protagonisti del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta, di cui ricorre il quarantesimo anniversario.
Alle celebrazioni in via Fani di sabato, il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha attaccato con durezza tutti quelli che hanno regalato un’intollerabile visibilità ai brigatisti del commando del 16 marzo. E ha ribadito che gli autori dell’assassinio a sangue freddo di sei persone non possono avere alcun diritto di parola.
Ora, il contesto è terribile - stiamo parlando della più grande tragedia della storia repubblicana, dell’undici settembre del nostro paese - e quindi ogni considerazione, anche impulsiva, è del tutto comprensibile, visto che le ferite per vittime, parenti e colleghi non sono rimarginabili. Ma Gabrielli ha torto. Quell’avvenimento, apogeo di una sequenza tragica, traumatica e profondamente innervata nell’Italia contemporanea, non può non essere studiato e analizzato e quindi non è possibile non ascoltare chi ne è stato partecipe. È il sale della conoscenza. E il fondamento del nostro mestiere. Che deve affrontare la vita reale, anche se questa è quasi sempre pessima, ingiusta e avvilente, e i suoi protagonisti, anche se questi sono quasi sempre sanguinari, disdicevoli e deludenti. Proprio per questo motivo, non può esserci spazio alcuno per la pedagogia, né per le narrazioni settarie, perbeniste, edulcorate o edificanti. Qualsiasi vero giornalista avrebbe dato il sangue per intervistare Hitler o Stalin o Pol Pot o Attila o Landru o Charles Manson o chi volete voi della lunghissima schiera dei personaggi maledetti che hanno segnato il tragitto del carro della storia. E quindi è del tutto legittimo intervistare Mario Moretti piuttosto che Valerio Morucci, Adriana Faranda o Prospero Gallinari, così come è stata una stupidaggine farisea lo scandalo per il faccia a faccia con il figlio di Totò Riina di qualche tempo fa.
Il problema non è chi si intervista, ma come lo si intervista. Sai che notizia, direte. Eppure è qui che anche stavolta è cascato il somaro. La cosa veramente grave è come la nostra categoria di doppiomoralisti si sia approcciata - salvo rare eccezioni - ai colloqui con gli uomini delle Br. Una genuflessione. Uno sdraiamento. Un ossequio umidiccio senza contraddittorio. Una soggezione junghiana. Anzi, neppure questo. Forse la cosa è addirittura più grave. Da quelle interviste emerge quasi sempre una familiarità, una consanguineità, un idem sentire culturale, esistenziale, antropologico che ha reso manifesto quello che sappiamo da sempre e che rappresenta uno dei nostri tarli più devastanti. E cioè essere sgorgati fuori dallo stesso liquido amniotico di quegli altri. Dalla stessa acqua. Dallo stesso album di famiglia. Dalla stessa autobiografia della nazione. Dallo stesso mondo infido, velleitario, demagogico e parolaio della melmosa stagione sessantottarda. Dalla stessa barricata. E la successiva separazione tra i compagni che sbagliano e quelli che non sbagliano ha certo diviso i percorsi, ma non l’imprinting di quegli anni formidabili.
Ora, è assolutamente chiaro e fuori discussione che non esiste alcuna condivisione della violenza, degli agguati, del sangue - assolutamente nessuna - e che il cammino all’interno dei sentieri della democrazia è certificato. Ma è altrettanto vero che quelli lì non sono estranei, non sono diversi, non sono altri al mondo culturale e sociopolitico della sinistra degli anni Settanta, ma sbocciano invece come tamerici proprio da lì, degli alien covati in seno, orribili nell’aspetto e nelle azioni, ma per nulla marziani rispetto a chi li ha partoriti. Un trentennio fa il mitologico Sergio Zavoli diede una dimostrazione superba di come si tratta una materia così incandescente. E realizzò la più straordinaria inchiesta della storia della tv, dedicata al terrorismo dalle origini al caso Moro. Ci furono tante polemiche, ovviamente - eravamo molto più vicini ai fatti - ma era tale l’asciuttezza, la competenza, la capacità di ascoltare, di capire, ma anche di essere incalzante e inflessibile con degli assassini da conquistare anche i critici più integralisti.
Eccezioni. Gli arguti analisti di questi giorni, invece, benché tutti compresi nel ruolo, non ce l’hanno proprio fatta a non sentirsi parte di un percorso esistenziale comune - erano tempi terribili, ma eravamo tutti così giovani… - di una comunella ideologica dalla quale intervistatori e intervistati vedevano lo Stato come il male, le istituzioni come serve della plutocrazia, la borghesia come feccia della società, il merito come prevaricazione, la libera impresa come sopruso, le forze dell’ordine come bracci armati del fascismo e le contraddizioni del sistema e i processi proletari e i tribunali del popolo e tutto il resto delle fregnacce con cui sono stati inzuppati quegli anni schifosi e maledetti. E così abbiamo dovuto sorbirci un logorroico flusso di coscienza, la nobilitazione di un teorema difensivo, l’autocelebrazione postuma dentro un’aura di eroismo cheguevarista. Che vergogna. Eppure sarebbe bastato poco per fare del buon giornalismo. Sarebbe bastato porre delle domande. Ma porre delle domande vuol dire avere a che fare con la realtà, mentre è da troppo tempo che il giornalismo con la realtà non ha più niente a che vedere.
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