Le solite vecchie balle
sul mito del popolo

La Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, nella loro lunga vita, sono stati accusati di tutto. Spesso a ragione, molto spesso a torto. Anche perché è grazie a loro che un paese uscito distrutto dalla guerra è diventato, con tutti i suoi squilibri e le sue plateali contraddizioni, una potenza economica europea. E invece non si parla quasi mai della vera colpa, del vero peccato originale di cui Dc e Pci sono responsabili, di quel virus che ha contagiato il nostro sistema politico fino a fargli partorire la deriva demagogica che oggi spadroneggia nelle stanze del potere. E che sembra roba nuova, roba fresca, roba germogliata dal governo degli scappati di casa, ma che invece affonda le sue radici nella storia profonda della Repubblica.

Il vero delitto compiuto da Dc e Pci è stato l’aver impedito la nascita di un sano, autonomo e vigoroso pensiero liberale, che avrebbe poi dovuto strutturarsi in un vero partito che occupasse lo spazio politico di destra secondo i canoni ben noti al mondo anglosassone, ma anche, con caratteri diversi, a quello tedesco e francese. In Italia, invece, per ragioni storiche evidenti, la presenza di questi due ircocervi, questi due conglomerati onnivori e omnicomprensivi, ha impedito lo sviluppo di una normale dialettica centrodestra-centrosinistra, che è invece andata a strutturarsi tra un enorme, gassoso partito interclassista che fagocitava tutto al suo interno – dai cattocomunisti alla Dossetti fino ai clericofascisti – e una sinistra totalmente egemonizzata dal mito retorico del comunismo, peraltro sempre smentito da un formidabile pragmatismo amministrativo, che ha ridotto a uno stato ancillare la componente socialista. Quindi niente riformismo a sinistra, niente liberismo a destra, eterno governo della Dc grazie al fattore K, eterno sottogoverno e controllo di scuola, università ed editoria da parte del Pci. Punto. A destra, ripetiamolo, il vuoto assoluto. Anche perché la parola destra era stata completamente devastata, distrutta ed espulsa dal vocabolario della politica dopo il ventennio fascista e quindi appannaggio solo delle macchiette del reducismo mussoliniano così impagabilmente immortalate da Monicelli nel formidabile “Vogliamo i colonnelli”.

E così, la natura intrinseca dei due partitoni impediva loro di basarsi sui principi della persona, dell’individuo, del merito, della libertà di pensiero e di intrapresa, del mercato, della competizione eccetera, quanto invece sul mito fondante - ed eccoci arrivati finalmente al punto - della gente, della massa, del gruppo. Del popolo. Il popolo dei democristiani. Il popolo dei comunisti. Il popolo. Anzi, il Popolo come pietra d’angolo di ogni ragione, di ogni intelligenza, di ogni sapienza, di ogni lungimiranza. Il popolo. Il popolo e la sua oratoria, la sua immortalità, la sua imbalsamazione, il suo essere vessillo di qualsiasi prossemica dialettica. E il fatto che, ad esempio, le classi dirigenti del Pci - generalmente di altissimo livello culturale e intellettuale - fossero super elitarie appare davvero irrilevante. Tutto il resto al di fuori del mito del popolo era fuffa, visto che ogni dinamica sociale e politica è sempre passata, per poi deflagrare - pensate a quale dose di populismo abbia rappresentato il Sessantotto prima e tutta la decade schifosa e tragica degli anni Settanta poi - attraverso l’artificio del popolo, della gente, della livella, insomma, del diciotto politico che altro non era se non - ma guarda un po’ - l’antenato pulcioso e forforoso dell’odierno “uno vale uno”.

Quindi, i nostri eroi oggi nella stanza dei bottoni, sui quali giustamente ironizziamo e sghignazziamo e ci sbellichiamo mane e sera, non è che saltino fuori dal nulla o siano gli equivalenti degli Hyksos e della loro invasione o siano sbarcati da Saturno o rappresentino chissà quale cesura rivoluzionaria. No. So’ piezz’e core, so’ scarrafoni a mamma soja, sono made in Italy, sangue del sangue, perché, come diceva il rimbambitissimo generale Pariglia di “Vogliamo i colonnelli” nel suo proclama alla nazione: “C’è un grande passato nel nostro futuro!”. La narrazione da sciampiste, da bar sport, da circolo delle bocce della rivolta degli ultimi contro la casta, della ribellione degli umiliati e offesi contro le tecnocrazie, dei virgulti della patria contro i professionisti del palazzo, per quanto innovativa appaia sui social, spurga dalla sentina della peggio enfasi sessantottarda che ha distrutto la cultura del merito e dell’individuo nella scuola e nell’università e che ha innervato la pubblicistica di giornali e media assortiti per decenni, fino a diventare un’alluvione grazie alla disintermediazione digitale.

Diciamoci la verità: alla fine, sono sempre le solite balle. La solita caccia al nemico responsabile di tutto (una volta l’ebreo, un’altra il francese, stavolta il negro), la solita elargizione a pioggia di denari pubblici (una volta i falsi invalidi di Avellino, un’altra i forestali della Calabria, stavolta i finti poveri del reddito di cittadinanza), il solito nazionalismo straccione (una volta la vittoria mutilata, un’altra Sigonella e i gringos, stavolta noi l’Europa la prendiamo a calci in culo), le solite adunate oceaniche (una volta il balcone di quello là, un’altra i comizioni del Migliore, stavolta i predellini di questo qua e le ruspe di quello lì), la solita stampa che prima insulta e critica, ma poi, appena capito chi è il nuovo padrone del vapore, inizia a sbavare, a tappetare, a stuoinare a nastro (avete dato un occhio ai Tg Rai dopo le nomine gialloverdi, putacaso?).

Tutto sempre e comunque nel nome e per conto del popolo, quello di cui ci si infarcisce la bocca dimenticandosi che il popolo è quello dell’assalto ai forni, quello del dagli all’untore, quello del soccorso al vincitore e, soprattutto, quello che di fronte alla scelta se salvare Barabba o quell’altro, ha scelto Barabba. È’ scritto nel Vangelo. Che, almeno lui, di balle sul popolo non ne ha mai scritte.

@DiegoMinonzio

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