Nelle scorse settimane il governo Renzi ha messo in discussione due capisaldi del sistema di relazioni industriali e di protezione dei lavoratori del nostro paese. Il primo è l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che prevede il reintegro in azienda del lavoratore licenziato senza giusta causa. Proporne l’abolizione ha sempre significato attaccare uno dei tabù della sinistra e dei sindacati italiani.
Nonostante la sua irrilevanza pratica, poiché sono pochi i casi in cui ricorre alla sua applicazione; nonostante abbia causato una profonda dicotomia fra le garanzie di cui
dispongono i lavoratori a tempo indeterminato e quelli impiegati con modalità diverse (contratti a progetto per i quali non c’è l’assunzione); nonostante l’art. 18 sia diventato l’immagine di un paese dove le aziende sono sottoposte a troppi vincoli; nonostante tutto questo, sindacati e sinistra hanno sempre trattato l’argomento alla stregua di un totem della cui adorazione sono diventati i cultori, un po’ come quei perfidi stregoni che si incontrano nei fumetti di Tex Willer.
Bene ha fatto, quindi, Renzi ad attaccare l’art. 18 ed i suoi sacerdoti. Nella lotta politica i simboli sono importanti: noi ci ricordiamo la rivoluzione francese per la presa della Bastiglia e speriamo, quindi, che un giorno l’abolizione dell’art. 18 sia ricordata come il simbolo dell’auspicata rivoluzione di cui l’Italia ha bisogno.
Bene ha fatto anche sul piano della sostanza, perché l’art. 18 ha creato una disparità di trattamento fra lavoratori a tempo determinato e precari, favorendo la crescita abnorme di quest’ultima categoria soprattutto fra i giovani. E’ benvenuto, quindi, un sistema in cui chi viene assunto possa essere licenziato a fronte di un indennizzo crescente con l’anzianità aziendale del lavoratore. Questo è però il punto da chiarire: è poco probabile che l’abolizione dell’art. 18 sia un volano per la crescita dell’occupazione: non è l’art. 18 che ha impedito alle imprese di assumere o di ristrutturare. Semplicemente, a causa delle rigidità rappresentate dall’art.18, le imprese hanno fatto fronte alle proprie necessità ricorrendo ai contratti di collaborazione, come i co.co.pro. Se le imprese non assumono, quindi, non è a causa della paura del reintegro previsto dall’art. 18 in caso di licenziamento, ma perché mancano di ottimismo sulle possibilità di crescita.
Solo se le imprese muteranno di aspettative e si convinceranno che ci sono buone opportunità, queste riprenderanno ad assumere ed investire. Di qui l’importanza di una ripresa della domanda e dei consumi delle famiglie. Non avendo avuto successo la manovra degli 80 euro di sgravi fiscali, Renzi ha lanciato l’idea di portare il Tfr in busta paga. Come noto, la quota di retribuzione rappresentata dal Tfr viene accantonata dall’azienda ed il lavoratore la può impiegare presso un fondo gestito dall’Inps oppure in un fondo pensione. La logica è quella di spingere i lavoratori a procurarsi, accanto alla pensione tradizionale (destinata a diminuire nel tempo) una forma di previdenza integrativa. A prima vista si tratta una logica ineccepibile. In realtà, dal punto di vista di un liberale o di un libertario, quella dell’accantonamento di una quota della propria retribuzione sotto forma di Tfr, è una decisione imposta al dipendente: lo si costringe ad essere una formica, negandogli il diritto di essere una cicala. Fa bene, allora, il governo a pensare di restituire al lavoratore il diritto di decidere cosa fare del Tfr, ma fa male a pensare di rilanciare i consumi a scapito del risparmio previdenziale. Dovrebbe riportare il Tfr in busta paga, lasciando il lavoratore libero di spenderlo, mantenendo se non rafforzando, però, gli incentivi fiscali all’accantonamento del Tfr in un fondo pensione.
Se è improbabile che la ripresa dei consumi e dell’occupazione possa prendere il via dai provvedimenti appena commentati, che fare, per dirla con le parole di Lenin, uno che di rivoluzioni se ne intendeva? Primo, sostenere la domanda abbassando l’imposizione sui redditi delle famiglie e soprattutto sulle imprese. Secondo, minimizzare l’impatto di tale decisione sul disavanzo di bilancio, intervenendo seriamente sulla spesa pubblica, essendo assodato che tale spesa è in ampia misura inefficiente nel servire il bene pubblico. Terzo, intervenire sulle cause di debolezza dell’economia italiana attraverso poche riforme, ben fatte e realizzate rapidamente. Una per tutte, rimuovere il federalismo perverso previsto dal titolo V della Costituzione, che ha creato una paralizzante sovrapposizione di competenze fra stato, regioni e comuni, e riformare la giustizia non solo civile, ma anche amministrativa: il garantismo ed il formalismo di cui i Tar sono interpreti impediscono un’amministrazione pubblica snella e veloce. Ne abbiamo avuto un esempio tragico nell’alluvione che ha colpito Genova. Sarebbe un contributo essenziale ad eliminare la burocrazia che soffoca qualsiasi decisione in Italia.
Èun copione scritto da tempo: speriamo che Renzi ne sia finalmente il regista.
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