Non serve essere degli scienziati per sapere che l’obiettivo principale di chi fa politica è la conquista del potere, in quote sempre maggiori, nella misura più ampia consentita dalla congiuntura storica.
Per questo non stupisce che il giovane Matteo Renzi, eletto trionfalmente due mesi fa segretario del Partito Democratico, punti ora con decisione verso Palazzo Chigi: guidare il governo consente di ottenere un potere molto più ampio di quello garantito dalla segreteria di un partito esangue e ormai sostanzialmente “virtuale” come il Pd. Il momento è quello giusto per mettere
a segno il colpaccio: il sindaco è all’apice della popolarità, non solo nel suo partito, ma in molta parte dell’elettorato e presso diversi “poteri forti” nazionali, mentre l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, Enrico Letta, si è rivelato un uomo onesto, competente e affidabile, ma del tutto scialbo come leader, completamente privo di fascino nella comunicazione e incapace di dare un vero slancio politico alla sua compagine; un Rumor o un Emilio Colombo dei nostri tempi, uno di quei leader dorotei la cui principale abilità consisteva nel non affogare durante le tempeste politiche, nel “galleggiare” nel mezzo dei conflitti che imperversavano tra correnti e potentati democristiani.
Non ho la sfera di cristallo e non posso quindi sapere quali novità deriveranno dall’azione di governo di Renzi. E tuttavia, ho il timore che non saranno né molte né positive.
Sul versante dei diritti civili (coppie di fatto, fine vita, fecondazione, etc.), Renzi non potrà fare nulla di significativo, avendo le mani legate dalla presenza nella coalizione di un gruppo come il Nuovo Centrodestra, totalmente indisponibile a rivedere, in senso più liberale e modernizzatore, l’attuale legislazione.
Sul piano, che è poi quello decisivo, della politica economica, i vincoli che freneranno l’azione di Renzi saranno i medesimi che hanno ostacolato Letta. La ripresa tarda a venire e l’austerità imposta da Berlino con il sostegno della Spd a tutta l’Europa grava come un macigno sulla creatività politica delle classi dirigenti nazionali. Sfidarla con successo appare al momento impossibile. Non ci è riuscito nemmeno Francois Hollande, presidente, eletto direttamente dal popolo, di una nazione più importante della nostra nello scenario mondiale e continentale, capo di una maggioranza parlamentare monocolore socialista e vero e proprio monarca repubblicano, anche se “a tempo definito”. Hollande aveva promesso, con cinque anni di mandato pieno davanti a sé, senza l’eventualità di “ribaltoni” o imboscate parlamentari, di cambiare la politica economica continentale, di contrastare l’egemonia tedesca, di perseguire l’equità sociale e il rilancio del welfare state. Distratti negli stessi giorni dalle sue vicissitudini sentimentali, certo più piccanti, ma assai meno rilevanti per il nostro futuro, molti non si sono accorti che il presidente francese ha annunciato di voler procedere nella direzione opposta a quella annunciata in campagna elettorale, di voler abbassare le tasse e concedere ampi sgravi fiscali alle imprese, di voler perseguire una politica di bilancio più rigorosa e, diremmo noi, più “tedesca”, “merkeliana”.
Qual è la posizione di Renzi in questo scenario? Ritiene necessario il segretario del Pd modificare una politica continentale sciagurata che mette al primo posto il sostegno elettorale nazionale ai partiti tedeschi e alimenta il populismo xenofobo nel resto del continente? E se sì, come pensa di farlo? Come immagina di riuscire laddove il ben più potente Hollande ha fallito, per giunta senza un passaggio elettorale, con una maggioranza politicamente così eterogenea e con le riforme istituzionali ancora in cantiere? La risposta arriverà presto.
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