Le vere Regioni
e la sfida dei costi

Lo scontro tra il premier Matteo Renzi e le Regioni, che resistono di fronte all’ipotesi di tagli nei trasferimenti, la dice lunga sulla situazione del dibattito politico. Alla luce di ciò, è davvero irrealistico essere ottimisti in merito alle prospettive dell’Italia. In qualche modo tutti hanno un po’ ragione e al tempo stesso – ma molto di più – tutti hanno torto, poiché sono incapaci di vedere quali siano i veri problemi strutturali.

Renzi e Delrio vogliono che le Regioni mettano ordine nei loro conti. Per loro la questione chiave è quella dei “costi standard”: l’individuazione di costi più contenuti, già adottati in talune regioni più virtuose, che dovrebbero essere imposti ovunque. In tal modo si potrebbe raggiungere l’obiettivo di 4 miliardi di tagli.

Tanta ragionevolezza fa un poco a pugni con un dato elementare: e cioè che Renzi a casa sua fa ben peggio. È noto come sia lo Stato centrale la fonte prima dei maggiori sprechi: eppure ben poco è stato fatto, come dimostra anche la vicenda del commissario alla spending review, Massimo Cottarelli, ormai in procinto di lasciare Roma per Washington.

Oltre a ciò, la logica dei costi standard continua a rifiutare la strada della responsabilizzazione, e cioè l’avvio di un percorso che conduca verso un sistema federale. In questo senso le Regioni sbagliano due volte: quando sono restie a tagliare le loro spese e, al tempo stesso, quando non rivendicano il diritto a porre fine a ogni trasferimento, dotandosi di entrate proprie. In un certo senso, non è molto importante quanto costa una siringa alla Regione Calabria se è quella stessa Regione che tassa i propri cittadini e che, con le proprie risorse, compie quelle scelte.

Le Regioni che difendono i trasferimenti e lo Stato che vuole tagliarli e “razionalizzarli” sono allo stesso modo prigionieri del mondo che ci ha portato in questo disastro: dove tutti sono tassati dallo Stato, che poi distribuisce risorse a soggetti irresponsabili.

Non si esce da questa situazione immaginando costi standard per ogni voce di spesa: una cosa tutt’altro che facile anche su piano tecnico. Al contrario, si possono rimettere le cose un po’ più in ordine se le Regioni e (perché no?) gli stessi Comuni vengono calati in un contesto competitivo: se ognuno può fissare le proprie imposte ed è chiamato a vivere solo di ciò. Se Lombardia e Piemonte dovessero competere tra loro sul piano fiscale (e non solo per voci marginali) vi sarebbero imprese che opterebbero per l’una o per l’altra sulla base delle diverse performance: dei costi e dei servizi. In questa maniera sia a Torino che a Milano ci si preoccuperebbe di eliminare sprechi.

Le Regioni dovrebbero allora accettare i tagli, che sono necessari, e però dovrebbero negoziare per avere in cambio due cose: analoghi e anche più consistenti tagli da parte dello Stato centrale; una maggiore libertà d’azione, che le porti a non dipendere più da quelle risorse che oggi lasciano la periferia per affluire a Roma per poi tornare nelle varie regioni.

Una simile logica concorrenziale non può facilmente piacere alle classi politiche delle regioni a statuto speciale e del Mezzogiorno. È normale. Ma che siano in silenzio su questo tema anche quanti dovrebbero rappresentare le principali vittime (in Veneto e in Emilia, e soprattutto in Lombardia) lascia senza parole.

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