Enrico Letta ieri di fronte al Senato non ha avuto un compito particolarmente difficile. Il grosso del lavoro lo aveva già svolto giovedì Giorgio Napolitano nel suo discorso alla stampa parlamentare: il capo dello Stato aveva «blindato», per dir così, il «suo» governo e il «suo» presidente del Consiglio, avendo buon gioco nell’evocare conseguenze «irreparabili» di una eventuale crisi di governo.
Conseguenze che chiunque sia dotato d un minimo di ragionevolezza non stenta a individuare al pari di Napolitano: tutti sanno che l’Italia, nonostante sia uscita dalla procedura di infrazione per deficit
eccessivo, resta un sorvegliato speciale nel club dei Paesi ricchi ma malati, tant’è che le agenzie di rating non perdono occasione per darci botte in testa (l’ultima di Fitch a Finmeccanica) E ugualmente nessuno può bellamente far finta di non sapere che, in caso di squilibrio politico, i mercati si scatenerebbero in nuove ondate speculative che ci metterebbero alle corde, e soprattutto renderebbero assai più improbabile la ripresina che ci aspettiamo per la fine dell’anno e l’inizio del 2014, un’alba di cui quello 0,1% di aumento della produzione industriale – pur coerente con il dato negativo sull’anno – somiglia quasi ad un raggio della luce che dirada l’ombra della notte.
Insomma, se cadesse Letta sarebbe un disastro: il governo delle larghe intese può non piacere – e in effetti è più che difettoso sotto vari aspetti – e gli elettori dell’una e dell’altra parte hanno parecchie ragioni per essere scontenti, ma tutti insieme sanno che oggi non c’è un’alternativa praticabile e concreta. Fino a quando non si riuscirà a cancellare quella vergogna del «Porcellum» la politica non potrà tornare a lavorare in maniera normale, senza governi che debbano mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, senza dover ricorrere ai tecnici e agli alti burocrati.
In questo contesto la vicenda kazaka, per quanto assai brutta e imbarazzante, per quanto ci faccia fare una pessima figura nel mondo, coinvolga una donna e una bambina e apra inquietanti interrogativi sulla capacità dello Stato di esercitare le sue prerogative sovrane; per quanto stenda ombre e sospetti su un ministro che non solo è responsabile dell’ordine pubblico ma è anche vicepremier in quanto segretario del secondo partito di maggioranza; per quanto sia vero tutto ciò bisogna avere il coraggio di riconoscere che essa è certamente subordinata all’interesse generale del Paese. Napolitano ha avuto questo coraggio e occorre dargliene atto nel momento in cui si conferma espressione di una classe dirigente (forse d’altri tempi)che sa prendersi le responsabilità sulle spalle.
Non così le forze politiche. Il Pd soprattutto, il partito che esprime il presidente del Consiglio, ha gestito questa vicenda come una puntata della eterna lotta delle sue tante correnti, tra i colpi di aspiranti leader scalpitanti, le urla di personaggini di secondo piano che provano a dettare le loro condizioni ad un partito con la febbre alta, e i veleni di rancorosi vecchi personaggi che cercano di tornare alla ribalta.
Tutti loro avevano a cuore, più che la vicenda kazaka, la crisi del governo e la fine delle larghe intese con il centrodestra, e si è capito benissimo. L’unico risultato che hanno raggiunto è stato quello di regalare all’odiato Berlusconi il bastone di lord protettore del «loro» governo. Un capolavoro tattico.
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