Libeskind e la sfida
da vincere per Como

Dopo settimane di dissertazioni e litigi, finalmente ieri mattina gli Amici di Como hanno presentato il progetto dei progetti, l’opera dell’architetto americano Daniel Libeskind di cui a lungo si è discettato, in qualche caso senza che il parterre dei contrari ne avesse neppure preso visione.

La Provincia li pubblica oggi, in tutte le salse, sul giornale e sul sito internet, in modo che ciascuno possa trarre le conclusioni che riterrà. Probabilmente si sarebbe potuto fare anche prima, anticipando di qualche settimana la presentazione del progetto e limitando i borbottii, ma tant’è. Oggi sappiamo di cosa si parla, e registriamo - soprattutto - il serrate le fila dell’assessore Spallino, che ieri, al termine dell’incontro all’hotel Terminus, ha ribadito un paio di concetti.

Il primo: non si organizzerà nessun referendum, non si organizzeranno consultazioni popolari (e d’altra parte sarebbe stata un’assurdità). Forte del suo mandato, l’attuale maggioranza - con i soliti distinguo e qualche mal di pancia - si è assunta la responsabilità di “blindare” l’operazione. Che si farà e basta.

Il secondo: non è in discussione la collocazione, individuata nella piattaforma che dai tempi di Carlo Codega chiude la diga dei comaschi. Quella è la “location”, altre non ce ne sono.

La reazione “muscolare” di Spallino, che è apparso particolarmente determinato, chiude qualche mese di polemiche, ma è probabilmente anche la prova del fatto che questa maggioranza, martoriata da tanti guai e da alcune scelte contestatissime - specie in fatto di fiscalità - ha capito che Libeskind e gli Amici di Como rappresentano una delle poche chance di lasciare un segno nella storia di una città ferma da decenni.

D’altra parte nulla di quanto realizzato dai nostri nonni crebbe senza fatica, polemiche, amarezze, salvo, in qualche caso, segnare indelebilmente la storia della civiltà moderna, quella dell’architettura, del pensiero, dell’arte.

Giuseppe Terragni ebbe i suoi guai, quando in piazza del Popolo edificò quel “cubo” che, anche in tempi di pensiero decisamente più omologato, suscitò mugugni e polemiche feroci tra i tanti che ritenevano folle, umiliante e forse anche un po’ disgustosa l’idea che a un ragazzotto che amava righelli e prospettive fosse concessa l’opportunità di deturpare l’abside elegantissima del nostro Duomo e la facciata del teatro, opponendo a entrambe quello scatolone che anche un bimbo avrebbe saputo disegnare.

Sappiamo com’è finita, e benché nessuno sia in grado di dire oggi se fra settant’anni anche Libeskind godrà della venerazione planetaria di cui beneficiano Terragni e il gruppo ristretto dei suoi adepti, a contare è soprattutto il senso della sfida. Ci sono frasi, parole, modi di dire, hashtag che da mesi, in Italia, si rincorrono sui nostri social network, sui nostri organi di informazione, in tv: si parla del Paese che verrà, si parla de #lasvoltabuona, si parla di “cambiamento”. Sono concetti che sfiancano, conditi come sono di dosi abbondanti e ineluttabili di renzismo, e che finiscono per perdere il loro significato primitivo, quello più genuino, annegando nel calderone della banalità e della noia.

È un peccato, perché in fondo questo dovremmo fare. Accettare le sfide e con esse il rischio di perderle, consci, “dannunzianamente”, che restando immobili finiremmo per sbagliare comunque. E allora benvenuto Libeskind. Chissà che, per tutti noi, non sia davvero la volta buona.

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