Lungolago, i 100 giorni
e la Waterloo di Como

Ci furono cento giorni che cambiarono la storia dell’Europa dell’800 e quindi del mondo, quelli trascorsi tra il ritorno di Napoleone Bonaparte dall’esilio dell’Isola dell’Elba e la restaurazione della dinastia borbonica con Re Luigi XVIII sul trono di Francia. Lo stesso periodo è trascorso dal momento della consegna delle vostre 60mila cartoline a Roma ad oggi. E non è cambiato niente.

Come tutti sanno, in quei sacchi con le foto artistiche di Pierpaolo Perretta e le firme di tanti comaschi che vogliono bene alla loro città c’era la richiesta di far ripartire e portare a termine i lavori sul lungolago. Sanare quella ferita ormai incancrenita tra la città e il suo specchio d’acqua decantato in tutto il mondo come uno dei più suggestivi. Cos’hanno in comune i due “cento giorni”? Una parola sola: “Waterloo”. E se almeno Napoleone, nel periodo precedente il suo primo esilio qualcosa di buono lo aveva combinato (una delle grandi opere che questa città è riuscita a portare a termine non a caso è la strada realizzata con lui regnante e che porta il suo nome), il Comune di Como e la Regione Lombardia negli otto anni che hanno preceduto questi cento giorni sono riusciti solo a produrre una compilation di disastri.

Che a palazzo Cernezzi a Como e palazzo Lombardia a Milano non si aggirassero condottieri e statisti lo sapevamo. Anche se i comaschi, a un certo punto sono stati costretti a credere ai loro proclami roboanti sui fausti destini dell’infausto cantiere. Campagne, quelle intraprese da Mario Lucini e Roberto Maroni non dissimili come esito da quella di Bonaparte in Russia.

Certo non vi è stato il Tolstoj dell’inarrivabile Guerra e Pace a narrare le loro gesta (?), sarebbe stato sprecato. Ma solo un piccolo quotidiano locale che, a un certo punto, è riuscito a tirarsi dietro una città che, nonostante tutto, si è dimostrata molto migliore di chi l’amministra a tutti i livelli. Salmerie che l’Armata Brancaleone comunal regionale non è riuscita a utilizzare. Neppure il coro che pure ha trovato l’amplificatore dei mass media nazionali e internazionali incredubili di fronte allo scempio perpetuato di tanta bellezza, è riuscito scrostare l’’inerzia delle truppe cammellate della politica. Persino il governo, alla cui porta La Provincia è arrivata a bussare con le cartoline deposte nella cassetta di Matteo Renzi, che aveva detto agli ineffabili amministratori comaschi e milanesi di fare quei pochi passi indispensabili per consentire a Roma di intervenire, ha potuto qualcosa. Con buona pace della proverbiale efficienza del Nord, di fronte alle indolenze romane. E non che Como e Milano fossero chiamati a smuovere montagne o a sconfiggere eserciti prussiani, asbrugici, britannici e russi. Era solo una questione di nomine, di timbri di firme, di delibere.

I nuovi proclami usciti dal ventre di palazzo Lombardia contro il Comune fanno perciò l’effetto del bue che dà del cornuto all’asino. Se la Regione può fare ciò che minaccia, perché non si è mossa prima? Quanti piatti hanno dovuto assaggiare prima di capire che era minestra? Ecco perché La Provincia ha deciso di muoversi ancora, di approfittare di nuovo della pazienza dei comaschi. Per mandare a Sant’Elena i politici responsabili dello sfascio sul lungolago, c’è ancora tempo. E ci penseranno gli elettori. Ma forse la Waterloo definitiva della città si può ancora evitare. La Provincia si batterà per Como, assieme a voi, cari lettori, fino all’ultima goccia di inchiostro.

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