Lungolago: il libro
giallo di Lucini

Bisognerebbe esserci dentro la testa del Marziano del Lario, alias Mario Lucini, che appare sempre più disorientato nella devastante realtà del caso giudiziario e politico nato attorno a un cantiere, quello del lungolago, che in quanto a scelleratezza dà dei punti all’Egidio manzoniano.

Già, quanta scelleratezza dietro quest’opera incompiuta, che chissà se mai prenderà vita. E così dovrà essere, altrimenti povera Como. Scelleratezza prima, nel momento delle scelte, forse obnubilate dal piatto ricco messo lì dai fondi della legge Valtellina. Scelleratezza poi, nell’avvio del cantiere da parte di un’amministrazione del centrodestra, la cui sicumera si è trasformata in un poderoso boomerang.

Ma scelleratezza anche da parte chi, il Marziano appunto, ha vinto le elezioni presentando il biglietto da visita del buon senso, una delle tante cose di cui si era avvertita la mancanza in precedenza. E invece guarda un po’ come è andata a finire. C’è davvero da restare allibiti, nel sbirciare le carte dell’inchiesta che ha portato agli arresti dei due dirigenti comunali responsabili del cantiere sciagurato oltre che scellerato, sulla leggerezza nelle scelte fatte da Pietro Gilardoni assieme al Marziano Lucini, così insostenibile che Milan Kundura ci avrebbe fatto una collana di romanzi.

Non sostenibile dal punto di vista giuridico, almeno secondo la Procura, ma anche da quello del buon senso. Perché va bene provarci, pensare che il tentativo di rimettere in carreggiata un progetto deragliato senza dover rifare tutto dal chilometro zero poteva anche essere comprensibile.

Il sindaco, poi finito su Marte, si era speso fino all’ultimo centesimo in campagna elettorale nell’impegno a riconsegnare alla città il suo lungolago nel più breve tempo possibile. Però intanto il tempo passava e la macchina del cantiere dopo qualche go e stop, si era definitivamente piantata. Eppure loro due in particolare, Lucini e Gilardoni, ma anche coloro che alla fine questa procedura l’hanno condivisa e magari adesso stanno già correndo alle scialuppe di salvataggio, sono andati avanti con il gas a martello, per dirla alla Guido Meda. Lo rivelano anche gli atti dell’inchiesta. E allora c’è una domanda che sale dalla città, che i due personaggi in questione e i loro profili li ha conosciuti bene: «Com’è stato possibile?». Due tecnici di vaglia quali l’ingegnere (Gilardoni) e il geologo (Lucini), con il secondo che ha masticato per anni il pane duro delle retrovie della Pubblica amministrazione non si siano resi conto di varcare il sottile confine, che in queste materie, separa il lecito da ciò che non lo è? Questo il vero giallo nel giallo del caso lungolago. E la soluzione non può che essere nella testa di Lucini. Una testa coriacea che neppure di fronte a quanto avvenuto altrove, a Mose di Venezia e all’Expo, e addirittura davanti a un’altolà di Raffaele Cantone, il magistrato oggi emblema della legalità sotto il regno di Matteo Renzi, ha modificato una rotta destinata prima o poi a incrociare un iceberg di quelli che fanno male. In fondo, a pensarci bene, anche queste sono cronache marziane.

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