Che cosa sta succedendo alla nostra Polizia? Il caso del sovrintendente che rivelava dati sensibili a soggetti privati in cambio di denaro arriva il giorno dopo gli applausi di due sindacalisti a colleghi condannati in via definitiva per aver ucciso un ragazzo a botte. E a poche settimane dal caso dell’ufficiale medico che avrebbe cambiato il corso degli incidenti, cioè delle indagini, per scaricare sugli innocenti le responsabilità del figlio.
Tra multe cancellate, trasferte indebite con l’auto di servizio e atti contrari al proprio dovere, soltanto nella Polizia stradale di
Como gli indagati sono 24. E con le sorprese non è ancora finita, dicono i bene informati.
Nel frattempo, al netto della presunzione di innocenza e della diversità di ruoli, addebiti e persone, diventa lecito farsi qualche domanda sulla tenuta di un’istituzione nel suo territorio. Ci auguriamo davvero che in tanti si rivelino estranei alle accuse. Molto diverse fra loro ma con un punto in comune: avere strumentalizzato l’uniforme per piegarla a interessi privati in cambio di denaro, altri vantaggi e interessi corporativi e di carriera.
Al di là della retorica è per questo che masticano amaro i molti agenti che la divisa non l’hanno scelta per portare a casa uno stipendio come un altro, ma per fare qualcosa di buono per la gente. Chi continua a inseguire i ladri nella notte non può continuare a lamentarsi dei quattro soldi che prende a fine mese, se il suo collega arrotonda davanti al computer svendendo i segreti della gente. E chi sopporta in silenzio gli insulti degli ubriachi da portare in Neurologia non può avere nulla a che spartire con chi difende i picchiatori che uccidono. La legge è uguale per tutti e per tutte le uniformi. Chi dice che una sentenza definitiva è ingiusta non sta alle regole che fa rispettare agli altri.
In molti affermano non senza ragioni che deviazioni ci sono sempre state, che un certo grado di corruzione è fisiologica e che l’importante è che la polizia trovi da sé gli anticorpi per combatterla. Come in effetti sembra stia accadendo anche alla questura di Como dove, è bene ricordarlo, la stragrande maggioranza di uomini e donne può affrontare la sguardo della gente a testa alta. La stagione più cupa, quella durante la quale non deviava il singolo, ma interi apparati, è alle spalle.
Però non si può non segnalare che in questi anni di delegittimazione continua di avversari e istituzioni, di regole del gioco calpestate in nome degli interessi particolari, anche in seno alla Polizia è sembrata crescere una componente corporativa e autoreferenziale che produce lassismo e indulgenza nei comportamenti, fino a varcare la soglia del codice penale.
Mettiamoci anche i seri limiti delle norme disciplinari nella pubblica amministrazione, dove il licenziamento è stato finora strumento assai più improbabile che nel privato, e ci renderemo conto che si può gioire di un capo della Polizia, di un ministro dell’Interno e di un Presidente della Repubblica che definiscono indegni gli applausi al congresso di Rimini del sindacato autonomo.
Si può gioire, ma sarebbe meglio indignarsi. Perché non dovrebbe essere il Capo dello Stato, ma tutti gli equipaggi della Volante e tutti i loro rappresentanti sindacali a portare rispetto per la madre di un ragazzo di 19 anni ucciso per strada durante un controllo.
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