Ogni Bastiglia ha il suo Termidoro. Ogni trionfo la sua caduta. Ogni sogno il suo risveglio. Ogni illusione l’amaro confronto con la realtà pietrosa della vita. Che è quella, quella resta e continua a sferragliare sui suoi consueti, consunti, spietati binari, a dispetto di ogni velleità palingenetica e rivoluzionaria.
Quanta delusione in questo trentennale della caduta del Muro, che avvilimento diffuso per quello che doveva essere, per quello che avrebbe dovuto essere e che invece, nonostante tutto, non è. Quanta frustrazione per aver sperimentato sulla carne tutta la fragilità di quelli che invece consideriamo valori fondanti non solo delle democrazie, della modernità e del progresso, ma soprattutto degli esseri umani in quanto tali. Quei contenuti che a nostro avviso sono consustanziali al nostro essere al mondo, parte integrante della nostra natura, della nostra indole, dei nostri geni, della nostra cultura: l’uguaglianza, la fraternità, la libertà. La libertà, innanzitutto. La libertà.
Non è stata forse questa la parola d’ordine di quell’evento assoluto, pazzesco, totalizzante per chiunque abbia avuto la fortuna di viverlo, anche solo in diretta televisiva? Non era quello il logo che sventolava sui drappi della rivoluzione gentile? La libertà. La libertà di pensiero, di parola, di opinione, di fede. Esseri liberi. Fuggire dal giogo delle dittature, dalla morsa dei regimi totalitari, che rappresentano il vero topos del Novecento - il secolo più straordinario e terribile della storia dell’umanità -, dal controllo occhiuto e invasivo e violentatore sulle vite degli altri. Quella stagione magica della fine dell’Ottantanove aveva questo come marchio indelebile. La rivincita, la vittoria, il trionfo talmente assoluto della libertà da indurre, in quel momento di euforia collettiva, anche le menti più acute a celebrare la fine del mondo delle ideologie e anche la fine della storia in quanto tale perché, sperimentati gli orrori delle alternative, nulla poteva essere praticato al di fuori dell’alveo liberal-democratico.
E invece non è così. Non è mai stato così, né mai lo sarà. E non tanto per l’insipienza di questo o quel governante - basti solo paragonare il livello di statisti del calibro di Kohl, Thatcher e Mitterrand rispetto a qualche pittoresco straccione che ingombra le poltrone del potere in Europa e soprattutto in Italia - ma solo e soltanto per una durissima realtà antropologica che cerchiamo sempre di occultare. L’uomo. L’uomo in quanto essere umano gettato nell’esistenza e nel fluire del mare magno della storia, non è fatto per la libertà. Quella non è una gemma che gli viene data in dono. Non fa parte del suo corredo genetico. La libertà del suo essere singolo, magari, ma non certo il suo concetto universale. E proprio per questo motivo, ogni volta che lo consideriamo un bene non negoziabile, innato, scontato, intrinseco sbagliamo non solo l’analisi storica, ma proprio la comprensione della nostra natura. Ed è quello che abbiamo fatto dopo il Muro, quando, da anime belle, ci siamo immaginati che da lì in poi la libertà e la democrazia e il rispetto e la tolleranza e le pari opportunità sarebbero germogliate rigogliose fino a fecondare tutta l’Europa orientale finalmente pronta a ricongiungersi all’altra metà della mela, tutta tesa e adesa e protesa verso le magnifiche sorti e progressive di una società affrancata dal dolore, dalla schiavitù, dall’ingiustizia e bla bla bla.
E invece, se togli la cappa del partito unico magari non sboccia la democrazia universale, ma l’appartenenza all’etnia, al sangue, alla terra. Se crolla l’ideologia non sgorga l’afflato religioso etico-valoriale, ma l’appiattimento sul modello consumistico-edonistico. Se liquidi la casta dei generali e dei burocrati di apparato, poi non emergono statisti capaci e condivisi, ma tribuni e masanielli da strapazzo. E infine, visto che la storia non sbaglia mai le sue indicazioni, se rimuovi mezzo secolo di totalitarismo comunista, spesso non viene sostituito con la più perfetta delle comunità, ma invece da quello che erano quei paesi negli anni Venti e Trenta, paesaggi da brivido innervati fino al midollo di antisemitismo, nazionalismo muscolare, regimi autoritari e parafascisti intrisi di odi etnici. Se levi la Jugoslavia, rivivi Sarajevo.
Non è vero che la libertà sia forte, eterna e indistruttibile. Le pulsioni primarie degli uomini sono altre. La sopravvivenza individuale, innanzitutto. La sopravvivenza della specie - e quindi della famiglia, del gruppo, del clan - in seconda battuta. E poi il possesso. La licenza. Lo spazio vitale. Il potere. Il sopruso. L’odio. E infine, come scriveva quello là, la superbia, l’accidia, la lussuria, l’ira, la gola, l’invidia, l’avarizia. Quella roba sì che sgorga dal pozzo profondo del nostro cuore nero, del nostro peccato originale, del nostro essere quello che siamo. La libertà no. La libertà è una conquista dura e faticosa e asintotica che, infatti, ha pervaso la civiltà solo in rare occasioni e in ancor più rari luoghi del mondo e che, nella sua forma più estesa, riguarda solo il mondo occidentale - una parte del mondo occidentale - degli ultimi due secoli - alcuni spezzoni degli ultimi due secoli. Per tutto il resto del tempo e dello spazio, proprio no.
E questo non è un caso. Perché è dura voler essere liberi. C’è una moneta pesante da pagare per conquistarla. La solitudine. Il rischio. La paura. Niente barriere. Niente protezioni. Niente Muri, appunto. Niente padri padroni che decidono al posto tuo, che pensano a tutto loro e ti elargiscono la ciotola con la minestra due volte al giorno. Forse meglio così, non è vero? Starsene buoni buoni, a cuccia, a catena, cloroformizzati dal pensiero dominante, dal vento conformista del potere, dal fariseismo bipartisan, dal demagogo paonazzo che ti dice che è tutta colpa di quelli là. Facile, no? La libertà è un pane duro per colazione e noi siamo sempre più sdentati per riuscire a masticarlo.
@DiegoMinonzio
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