In Italia ci sono forze politiche che, sotto l’incalzare della crisi, da tempo seguitano a sostenere la necessità di uscire dall’euro attraverso un referendum. In verità, si tratta di proclami palesemente demagogici che cercano di dirottare sulla moneta unica le responsabilità storiche che gravano sul nostro paese.
È innegabile che l’uscita dall’euro consentirebbe all’Italia di avere una moneta debole che rilancerebbe le esportazioni. Tuttavia, a fronte di tali benefici, dovremmo fare i conti con tre gravi insidie che i detrattori dell’euro tendono a sottacere: l’aumento dell’inflazione dovuto al maggior costo delle importazioni; le prevedibili svalutazioni eseguite dagli altri paesi; un’ulteriore perdita di competitività del nostro sistema produttivo. Occorre, infatti, ammettere che, già in passato, le nostre imprese, lucrando sui benefici della svalutazione, hanno rinunciato ad investire nella ricerca e nell’innovazione, come si evince dal crollo dei brevetti italiani verificatosi negli ultimi venti anni.
Con un minimo di onestà intellettuale, dovremmo ammettere che il deficit di competitività del nostro paese va ricercato non solo nella pressione fiscale abnorme ma, altresì, nell’assenza di investimenti che ha causato il mancato aumento della produttività dei fattori produttivi (capitale e lavoro).
I motivi per i quali non possiamo uscire dall’euro sono, pertanto, molteplici. A parte i profili costituzionali (la nostra Carta costituzionale non ammette il referendum abrogativo sui trattati internazionali), un ipotetico referendum sull’euro finirebbe per innescare un’imponente richiesta di prelevamenti presso gli istituti bancari.
Come sostengono alcuni autorevoli economisti, per evitare la corsa agli sportelli, l’uscita dall’euro dovrebbe avvenire con grande velocità, senza che nessuno sia in grado di conoscere il giorno del cosiddetto “change-over”, cioè della conversione del denaro di ogni cittadino. Prima del cambio di valuta, nel fondato timore che la nuova moneta valga meno, tutti i risparmiatori cercherebbero di prelevare i propri depositi in euro. Poiché le banche non dispongono di riserve sufficienti per restituire i depositi a tutta la clientela, si diffonderebbe il panico tra i cittadini provocando scenari simili a quelli già visti in Argentina nel 2002 e in Grecia qualche tempo fa. Per evitare tutto ciò, l’unica soluzione sarebbe quella di effettuare il “change-over” a sorpresa, senza alcun annuncio, così da cogliere alla sprovvista i cittadini.
Ma si può mai definire democratico uno Stato disposto ad utilizzare un simile espediente per uscire dall’euro? Ci sarebbe, infine, un ultimo dato su cui riflettere. La svalutazione ridarebbe certamente fiato alla nostra economia ma sarebbe opportuno ricordare che il 60 per cento del valore dei prodotti italiani (dati del Centro studi di Confindustria) è composto da materie prime e da semilavorati importati dall’estero.
Stiamo attenti, quindi, a sbraitare contro l’euro perché il vero problema resta l’attuale impalcatura dell’Europa.
Bisogna ridefinire il quadro dei rapporti tra gli organi dell’Unione e ridare sovranità al cittadino. Questo è il vero nodo da sciogliere, altro che moneta unica!
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