Prima i nostri. E dopo chi?
Trent’anni fa, in un memorabile sketch televisivo, Gino Bramieri faceva l’europeista convinto che però, a forza di togliere dalla categoria dei nostri questo e quello - i francesi, i meridionali, i vicini del piano di sotto - metteva “prima” se stesso e la moglie e dopo tutto il mondo.
Quindi la parte facile è ricordare che c’è sempre un terrone per un nordico e stavolta può persino essere il comasco per i nordici ticinesi.
Il ragionamento un po’ più complesso riguarda la reale possibilità e utilità di mettersi “prima”.
Sappiamo che dal punto di vista giuridico il risultato del referendum ticinese è debole. Dovrà intervenire la Confederazione elvetica nei rapporti con il Cantone e poi nei rapporti con l’Unione europea; il tutto mentre a livello internazionale si stanno negoziando complessi accordi economici e fiscali.
Insomma l’ingegneria normativa è spesso - per fortuna - più complicata di uno slogan.
Ma poi: a qualcuno può sembrare davvero un gran risultato negare in prospettiva il posto di lavoro a un italiano mentre il nuovo Gottardo sta cambiando la geografia europea, mentre il porto di Anversa sta per superare i dieci milioni si container all’anno assorbendo il lavoro di centocinquantamila persone?
A Como, come a Lugano, forse ci si dovrebbe chiedere se il nostro comune porto è Anversa, o può essere La Spezia, e quanto una scelta potrà produrre, qui, occupazione e ricchezza future.
Gli amministratori delle città dell’Insubria, italiana e svizzera, stanno pensando di dotarle di infrastrutture comuni proiettate verso l’Europa e il mondo?
E a questi pensieri strategici varrebbe la pena di associare la conquista o riconquista di un’identità comune che ci renda forti e consapevoli attori locali su un palcoscenico globale.
Insomma, spendere energie per negare e rifiutare non sembra affatto un buon investimento: rischiamo di trovarci, tutti insieme, non “prima”, ma molto, molto dopo.
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